UNA CONFERENZA A PAVONE
Qui di seguito un estratto della conferenza tenutasi da Norma
Torrisi a Pavone Canavese il 26 maggio 2012 all'interno del convegno sul
medioevo delle ferie medievali... buona lettura.
Il canavese nel Medioevo
Il
canavese dell'anno mille è governato dal primo re d’Italia Arduino e questa
relazione parte da questo alto medioevo sino il 1350, anno a cui si ascrive per
l’Europa e la nostra penisola, la chiusura del medioevo. Cosa che non avviene
per il Piemonte
che lo vede immerso sino a dopo la metà del quattrocento, non avendo rinascimento, vale a dire periodo
di rinascita delle arti e costumi, periodo di magnificenza.
La ragione si
può ascrivere a coloro che governavano questa terra di frontiera, le
signorie e poi i loro discendenti vale a dire il casato Savoia
inclini alle armi che allo spendere soldi per arti, consumi e
chincaglieria.
Avviene
quindi che non abbiamo evoluzione del cibo e delle arti, così ricca e
appariscente come per le signorie toscane, emiliano-romagnole, umbre,
marchigiane. Qui, in Piemonte, si è da
sempre badato al sodo, impegnando denaro per fortificare e salvare il territorio dall’invasore,
dall’inclemenza del clima.
Nella
casata Savoia sovente il re di turno al
governo imponeva una doppia quaresima – o allungava quella esistente - per
non dover spendere ingenti capitali nel
mantenere la vita di corte fatta di
feste, ricevimenti e inviti di cortesia verso altri regnanti. Era un
cruccio che ha ripagato questa casata mantenendo intatta la consistenza del suo patrimonio e il
prestigio del blasone.
Terra
di frontiera con passaggio di pellegrini, mercanti e popoli anche diversi dagli
abitanti, favorendo scambi e rimanendo usi e costumi di questo defluire.
Quindi
anche nel Canavese sono passati i popoli
del nord e quelli del sud dell’Europa, del continente asiatico ed
africano.
Le genti del nord portarono un gusto maggiore per
la cacciagione e ci insegnarono a perfezionare la salatura,
l’essicazione, l’affumicatura delle carni, incrementando la coltivazione dell’orzo per la
produzione e l’uso della birra.
Risvegliando
altresì il gusto antico del miscuglio tra agro e dolce, che è rimasto caratteristica di quasi tutti i
popoli alpini. Le genti del sud invece
piuttosto portati per la pastorizia
hanno inciso sui metodi, le tecniche e i consumi dei latticini e
formaggi. La conservazione delle carni
con uso di olio e di grasso. Basti pensare il lardo messo a stagionare sia
sotto sale che sotto olio, del salame della duja messo sotto grasso. E per
quanto riguarda i formaggi nel canavese,
ci è rimasto in retaggio un formaggio fresco di particolare bontà: i TOMINI,
latte caglio messi a sgocciolare in
scodelle di giungo, ed arrotolati nelle
garze. Non compaiono in nessun’altra parte della nostra penisola. Li ritroviamo
in Grecia, ex Yugoslavia, nella Spagna,
nelle popolazioni dedite alla pastorizia delle pianure dell’est sino ai mongoli
delle pianure ventose dell’ex Unione Sovietica, verso l’Asia.
Soldati
di ventura quali frncesi, tedeschi, catalani arrivati qui per difendere i
signori locali hanno inciso molto sui nostri usi e consumi e rimangono le creme
cotte quali la creme brulè, i salumi quali la salsiccia simile a quella
francese e spagnola. Nonchè rape e verza cotti con le puntine di maiale e
salsiccia che ci rimandano ai tedeschi.
La
seconda metà del cinquecento vede
l’occupazione dei francesi che
danno impulso al risveglio delle arti, alla cultura e rinnovo e splendore anche
nell’alimentazione. Le vicende militari successive vedono la restituzione del
Piemonte al casato Savoia, e l’avvento
di regnanti dalla mentalità illuminata, cresciuti nelle corti europee e quindi
più inclini al divertimento, alla cultura
ed al lusso. Si evolve il barocco con un fiorire di cantieri per la
costruzione di palazzi, si crea benessere e un susseguirsi di statisti,
politici, cortigiani, cuochi, nobildonne, guerrieri e popolani. Diveniamo,
bisogna ricordarlo, la capitale del cioccolato e si formalizza l’uso degli
agnolotti di provenienza emiliano-romagnola. Questa tesi è controversa, perché dalle cronache si è dedotto che lo strumento per tagliarli nella antica lingua piemontese era
denominato anolot, quindi agnolotti, e difficile ascrivere chi prima di chi è
stato l’ideatore.
All’inizio
di forma arrotondata riempiti solo di formaggio, uova e erbe. Nei ricettari del
1050 troviamo descritto un agnolotto di forma più grande formato da due grandi
pezzi di pasta all’uovo con dentro un miscuglio di carne di volatile, erbe,
formaggio, uova, chiusi a pressione delle dita conditi con toma fusa, burro di
malga e foglie di salvia selvatica. Denominati GOB.
Rimangono
come tradizione nel cuneese e in alcune luoghi del canavese.
Accanto
a agnolotti di forma arrotondata e di circonferenza minore, serviti in brodo allungati con buon barbera.
Ancora oggi qualche anziano compie questo gesto e si evince sia stato dettato dal pensiero parsimonioso
delle nostre genti, che mangiando il brodo o la minestra alla fine del pasto
quotidiano – consuetudine ancora in vigore –
la rimanenza del vino rimasto nel bicchiere sia finito nel brodo per
dare corpo e baldanza ad una vivanda
magari non sempre di grande corposità.
I
nostri antenati avevano imparato dagli invasori germanici e francesi, che un
brodo caldo apre lo stomaco alla digestione, al contrario dell’abitudine
malsana dei giorni nostri che ci fa propinare sorbetti gelidi.
I
francesi ci hanno lasciato l’abitudine di iniziare il pasto con le insalate, nei loro menù le entrée sono formate da
verdure in insalata, le cruditè.
Attualmente
assumiamo il caffè alla fine del pasto, rito che si impone dalla fine del
seicento.
Prima
del suo avvento si era sempre ricorsi ad
un vino corposo – da meditazione – o a
del vino liquoroso quale il barolo
chinato, abbinato nel settecento al cioccolato, o al marsala, o al
passito. Lo zucchero aiuta l’apparato digerente a svolgere bene il
suo dovere, alzando il tasso di zuccheri nel sangue abbassati dalla digestione.
Questi
vini sono stati sostituiti con del liquore forte, abitudine errata,
l’aggressività di un superalcoolico serve per dare forza e vigore
nell’affrontare climi freddi, o dare energia.
I
nostri vecchi ben lo sapevano, assumendo
un bicchierino di grappa nelle mattine
fredde, nebbiose, prima di recarsi nelle vigne o gli operai prima di
intraprendere la pedalata verso le
officine.
Con
l’anno mille, si afferma la certezza che il millennio nuovo che si affaccia, -
l’uomo del 999 credeva nel detto mille e non più mille, - non porta catastrofi,
quindi si rilassa ed inizia ad elaborare un vivere nuovo, più consono ed
interessante. Non essendo incline a cibarsi di
radici e vivere nella sporcizia,
ma bensì alla convivialità e al buon pasto, si guarda attorno e cerca di
allargare i suoi orizzonti. Ha dovuto affrontare qualche volta lunghi periodi
bui, anche di carestia, dove si sono verificati anche atti di cannibalismo, ma
sono stati momenti rari e sporadici e
sovente frutto di leggende. Oggi le chiameremmo leggende urbane. Nei momenti
di carestia dunque, si pestavano le radici per fare pane, si mangiava ghiande e panico macinate come
farina per farne delle polentine. Si
lessavano e condivano le radici della
scorzonera, i barbabouch radichette primaverili che lessate e condite con toma
e fontina fusi nel burro, ancora in uso nella tradizione delle nostre contrade.
Le
bacche di rosa canina per fare liquori e marmellate. I peperoni e le rape in
viticci di aceto, per intingerli nella bagna cauda.
E a proposito di leggende
si narra che nel 1377 al Piazzo di
Biella la gente si sia addirittura mangiato il vescovo coi cavoli. La leggenda dice in realtà che le genti di Biella stanchi
di angherie del feudatario Giovanni Fieschi, vescovo di Vercelli assalirono la
sua residenza lo sorpreso a letto, lo catturarono e lo legarono a basto sul
dorso del mulo. E dopo il giro di rito nella cittadina lo gettarono nel pozzo
dove la gente del luogo pescava l’acqua
e con quell’acqua lessava i cavoli.
Da questo deriva il detto di aver mangiato il vescovo coi i cavoli. Il
suddetto vescovo, non fu trucidato, visse e divenne papa Urbano V.
Le
superstizioni che prendono corpo, molte
sono legate al cibo. Un esempio lo
possiamo ritrovare nel modo in cui si
definiva ed ancora oggi avviene il fermento del pane in Canavese ed in Piemonte:
l’alvà. Ci proviene dall’antica
credenza popolare che il pane manufatto con l’alzarsi del sole e l’apparire del
giorno potesse levarsi e crescere meglio
e in fretta, la sua forza data in simbiosi anche al pane che è la nostra forza.
Nel
576, molto prima dell’anno mille questa zona era sotto la dominazione dei
Longobardi che eressero importanti costruzioni. Ci portarono
usanze alimentari importanti che capovolsero l’uso comune. Vi fu anche
un rovescio della medaglia, abitudini
poco consone col buon gusto e il buon senso. Il micio di casa fu immolato sul tavolo della superstizione: finì
in padella. Era credenza che cibarsi di
carne di gatto servisse a propiziarsi il diavolo. Papa Gregorio Magno,
volendo porre fine a questa
barbarie, emanando editti ed infuocate
prediche, tutte disattese, pensò di suggerire la seguente cosa: cibarsene ma
come forma di ribellione al culto del
dio del male. Sperando in cuor suo di
sortire effetto inverso. Ma il micio, non solo continuarono a cibarsene ma
suggerì dei trattati come meglio acconciarlo per una degustazione
migliore. Le cattive abitudini sono dure
a morire e il nostro amico, a me molto caro, lo hanno continuato a mangiare sia
sul nostro territorio piemontese, che ligure, lombardo e veneto.
Un’altra
abitudine nei riguardi del felino era in uso in quegli anni, una barbarie ancora più lugubre e tremenda. Si
pensava che per catturare la sua
furbizia, si potesse trapanare il
cervello e con una cannuccia
succhiarlo. Furono emanati dalle autorità numerosi editti, cominate pene
severissime. Era pratica molto comune e diffusa anche trasversalmente alle
classi e alle caste.
I
popolani non vivevano il pasto quotidiano come un tormento, ma nella fiera
povertà dei loro mezzi cercano di cucinare e ravvivare gli alimenti di cui
dispongono. L’uso dei forni viene concesso più volte al mese e quindi una buona
provvista di pane, zuppe cotte nelle
grandi pentole di coccio, legumi quali lenticchie e ceci vengono cotti con la
carne di maiale e poi sistemati nel fresco delle cantine con coperchi di pane.
Il maiale è la dispensa del signore e del popolano. Ci avviano al pascolo di
questo animale i numerosi popoli barbari scesi per conquista. Ci insegnano
anche la pastorizia di pecore e capre. I campi vengono coltivati assieme ad
orti, ingentiliti dal gusto francese dei Franchi. L’orto medievale ha un impronta rilevante nel
nostro uso di allestimento, se ci guardiamo attorno ne troviamo traccia. In
cosa consisteva? Nell’intervallare le cultivar
di verdure, legumi ad cultivar di fiori di varia foggia e colore. Si
erigeva una barriera, tutto attorno per
delimitare il territorio, per riparo
dalle inclemenze del tempo. Si mettevano a dimora siepi di bosso, alberi da
frutta intrecciati, canne che essiccate
servivano per pescare o intrecciare cesti e utensili. Accanto alle verdure, erbe
officinali per curare il corpo, rose
canine dalle cui bacche si confezionavano
infusi e marmellate.
Questo orto particolare aveva la possibilità
di ritemprare con la cromachia dei
colori lo spirito, di rilassare la mente. I popolani, sebbene con più modestia,
cercavano di imitare quelli del loro signore. Il giardino era un luogo
paradisiaco, protetto, dove ritemprare il corpo e lo spirito. Per realizzare
questo mix botanico facevano appello alla loro immaginazione, fortemente
influenzata dalla simbologia del tempo. Ecco allora l’orto strutturato secondo
lo schema di un grande quadrato diviso in quattro a formare una croce di
vialetti, con al centro una fonte o un albero o un roseto. I viali rappresentavano
i quattro fiumi del paradiso, la fonte il paradiso stesso. Nei nostri orti tale
organizzazione è venuta meno, ma si sono conservate l’organizzazione dello
spazio in forme geometriche, semplici e rigorose, e quel gusto di mescolare le
colture, operazione raffinata che richiede una conoscenza tutt’altro che
improvvisata e molta attenzione nei particolari. Senza dubbio avevano un grande
rispetto per la natura e i suoi cicli. Badavano all’alternanza delle
coltivazioni, al riposo biologico della terra, alla pacciamatura con composte
di foglie utili alla concimazione.
Un
grande impulso lo danno i monaci. In questo territorio i benedettini dell’abbazia Fruttuaria insegnano ai
contadini modi migliori di coltivazione, profilassi contro malattie del verde,
introducono alcune specie botaniche nuove per la zona.
Nell’allevamento
del bestiame insegnano nuove tecniche e soprattutto introducono la profilassi
contro le malattie. Vi troviamo metodi alcune volte empirici e
sperimentali, con l’evolversi delle conoscenze
e della pratica sortirono anche parecchi
effetti positivi. Frutturaria aveva dei monasteri dipendenti ad essa quali la
diocesi di Ivrea, Torino, Vercelli,
Novara, Acqui Alta, Tortona e altri in Liguria e Lombardia e con questi
loro confratelli si scambiavano notizie ed informazioni di tecniche e nozioni
di cultura materiale. Ci lasciano
quantità di ricette sull’uso delle verdure, senza dover attingere alla carne.
Ci abituano a mescolare le varie
insalate, abbinate alle erbe officinali per curarsi e nutrirsi con regola.
I
monaci non mangiavano carne per la volontà di privazione già indicato nella
regola benedettina che proibiva l’uso del consumo di carne di quadrupedi,
consentendo quindi quella di volatili. La carne era considerata cibo lussurioso
per un’equazione carne=corpo=peccato.
Ai
monaci va attribuito l’inserimento
stabile e la coltivazione del riso in tutta l’area pedamontana e del
Piemonte, sino ad arrivare nelle pianure di Lombardore e Leinì. Coltivazione
che in seguito venne abolita nella nostra zona dovuta alle acque troppo
stagnanti, sino a divenire acquitrini, portatrici di malattie, quali la
malaria. Vi è ragione di pensare che se avessero trovato il modo di far
scorrere le acque come è avvenuto per la provincia vercellese e milanese ancor
oggi i campi coltivati a mais sarebbero state risaie con ricaduta monetaria
notevole. Le vie fluviali per le risaie sappiamo furono costruite grazie alle
idee evolutive dei signori milanesi che diedero commissione per la
progettazione nel cinquecento ad un
genio di nome Leonardo. Costruì
quella meraviglia di ingegneria
viaria fluviale che ancora oggi è in
uso.
Attorno
a noi grandi pascoli, foreste e popolazione scarsa favoriscono l’allevamento, la coltivazione e
la pesca nei numerosi tratti di acqua e laghi, lasciataci dalle glaciazione e
conseguente ritiro. Ricordiamo che questo catino delineato dalla Serra
Morenica, era un ghiacciaio ritirandosi
ci ha lasciato terra fertile, clima
particolare, laghi e corsi d’acqua ricchi di vita.
Si
disbosca man mano per coltivare e quindi cresce la semina di grano, panico e segala per la zona
montagnosa. Sulle mense dei contadini diminuisce l’uso della carne e cresce
quella dei pani, pappe, polente di legumi e cereali. Spesso integrati con farina di castagne per
gli abitanti della montagna e nella necessità con ghiande.
Sulle
mense dei signori vi è sempre il vino. Il villano allungava il suo vino con
acqua per non dilapidare in fretta ciò
che aveva stipato nelle sue cantine. D’estate lo allungava con aceto per
dissetarsi. Particolare cura nella coltivazione della vite sin dall’alto
medioevo da parte dei signori sia laici che ecclesiastici. Conosciamo numerosi
contratti con cui i proprietari terrieri affidavano a coloni una terra da
coltivare a vigneto riservandosi una quota di vino prodotto e talvolta
imponendo anche l’onere di provvedere al trasporto presso la residenza del
signore.
Alcuni
dei vitigni oggi presenti in Piemonte sono già attestati e documtantati nel medioevo: nebbiolo, barbisino, bearne, grignolino,
luglienga e moscatello. Arneis,
malvasia, freisa, pelaverga però verso la fine del medioevo.
Si
ascrive all’anno mille la codificazione del commercio e lo scambio di merci in
esubero, a seguito di un periodo di stabilità economica e politica. Vi è un
fiorire di mercati, di sagre.
Dall’ammasso dovuto al signore, in periodo di abbondanza il contadino
risparmia, quindi pensa di vendere il sovrappiù. Nasce un piccolo commercio - sia al dettaglio che all’ingrosso
– delle merci e degli armenti.
Ma
è mosso anche dalla necessità di ritrovarsi
ben oltre il fatto commerciale,
scopre la gioia di vedersi, di
confrontarsi, di scambiarsi informazioni, fare incontri anche galanti, rivedere
amici e parenti. Attorno alle piazze di questi mercati si aprono attività di
ristoro, si favoriscono anche le arti con i saltimbanchi, carro di attori, cantori e ciarlatani. I trovadori di lontana
memoria.
Il
banchetto e il convivio assume una
importanza strategica per la corte del signore del tempo. Allestendolo può favorire
un incontro, stringere alleanze, patti commerciali e strategia di potere.
Le tavole grezze, venivano ricoperte con
tovaglie di lino, canapa coltivata nella zona, fiandra per i più facoltosi.
I sedili in panche e sopra alle stesse
cuscini di velluto e broccato. I commerci intrapresi con l’Europa occidentale
avevano favorito l’introduzioni di usi e costumi anche nell’abbigliamento e
nelle stoffe. Nei dipinti sia murali che cartacei ritroviamo persone abbigliate
con velluti, nastri, broccati, sete di provenienza dai mercati del nord Europa
e dall’oriente. Il volgo si abbigliava con lane tessute a telaio, canapa e lino
che coltivava nei suoi poderi, linee semplici, colori della terra, tinti con
foglie della cipolla, erbe, radici e polveri.
In
questo inizio secolo sulle mense venivano poste stoviglie di coccio
individuali, manufatte in questa zona. Stiletti e cucchiai di legno per ogni
commensale. Un grande piatto di legno su cui appoggiavano scodelle di coccio,
ciotole e piatti, conforme le portate e le vivande da servire. Nei banchetti
importanti sul piatto grande si appoggia un piatto fatto di pane, per favorire
lo scolo dei grassi e a fine pasto lo si donava al popolo e ai servi della
magione. Il pane bianco era posto sulle
tavole degli ecclesiastici e sulle mense delle ricche signorie.
Il
bicchiere era un boccale di coccio individuale, ma per lungo tempo nei
banchetti meno importanti vi fu l’uso di un boccale ogni due-tre commensali.
Prima
dell’anno mille anche per il piatto o assetta di legno viene condiviso tra
gruppi ristretti di commensali. Il cucchiaio sempre individuale e lo stiletto,
manufatto pregiato e costoso, usato per tagliare le carni, lo si divideva con altri commensali. Questo
uso promiscuo impone una certa creanza e civiltà, si ha la necessità di dettare
e codificare delle regole di buon comportamento: non sputacchiare nel
bicchiere, non pasticciare nel piatto con le mani unte, servirsi con
parsimonia, non sbattere la bocca nel masticare, non succhiare i brodi, non
pulirsi le mani unte sui commensali a fianco, non sputare il cibo non gradito
sotto le tavole. Non soffiarsi il naso nella tovaglia. Il tovagliolo viene
istituito verso il 1300, ed in mancanza di questo prezioso pezzo di stoffa, vi
era un servizio di lavaggio mani fornito
da ancelle. All’ acqua si aggiunge polvere di cannella e acqua di fiore di
arancio per sgrassare le dita. Grandi pezze di stoffa profumata a loro volta
servono per asciugare le mani e alle dame importanti venivano massaggiate le
dita con unguenti, per mantenere la pelle morbida e profumata.
Le
grandi feste allestite per festeggiare una vittoria in campo militare, un
matrimonio, una nascita, un’alleanza avvenivano nelle stanze più grandi del
maniero, nella bella stagione all’esterno dello stesso. Si installavano tavole lunghe, le persone importanti venivano
sistemate alle tavole allestite su
piattaforme di legno, addobbate con grande eleganza. Alle spalle delle tavole degli ospiti venivano messe enormi
balle di paglia, che servivano per
dare riposo, ed in alcuni casi si
trasformavano in giacigli amorosi. I
festeggiamenti duravano più giorni,
i commensali non si allontanavano mai dal luogo del convivio. Avveniva
una maratona del divertimento allietato da giochi di saltimbanchi e
mangiafuoco. Giullari e trovatori raccontavano le cronache di amori, di guerre,
di alleanze, di sortilegi, di magie, di poesia e di arte.
I
longobardi ci insegnano a bollire la carne e quindi si codifica l’uso del
bollito misto con trionfo di salse. Con
i franchi invece questo uso si tramuta in arrosto. Lo si cucina con il
vino, in crosta, allessato poi bruciato sul camino, in
camicia, avvolto nella pelle della pancia della vitella, il salmì, rovente cotto con spezie forti. Con aggiunta
di aceto, miele, erbe e spezie più gentili, quali la cannella e la noce
moscata.
Si
codifica il carpione, metodo di conservazione a base di aceto o vino agro,
che rimane una pietra miliare nella tecnica culinaria della regione e trova sempre vaste applicazioni.
Soprattutto perché rende piacevole e
commestibile alcuni pesci che hanno un
marcato gusto di fango, come la tinca o la carpa, nascondendone i difetti. Ed essendo cibo conservabile a lungo consente di ridurre il tempo dedicato alla cucina,
importante per le classi meno abbienti che impegnano maggior parte del tempo
nel lavoro dei campi, delle botteghe.
Nel 903 in Piemonte avvenne l’invasione dei
saraceni che misero la loro base nel
cuneese. Però qua e la anziché
distruggere si stabilirono bande di fuoriusciti che crearono colonie. La più
celebre fu nel canavese dove si insediarono a lungo trovandola terra di loro
gradimento. Iniziarono così le coltivazioni del loro frumento, il grano
saraceno, ne diffusero la coltivazione e il consumo di castagne e di riso. Da
loro ci proviene l’acquavite. Di questo
tipo di grappa si hanno notizie di distillazioni anche prima del loro avvento
addirittura all’epoca dei celti e dei galli, Il loro metodo di produzione era
con la fermentazione della segala. Un
metodo empirico che trova riscontro fino a decenni fa presso i montanari
valdostani e canavesani. I saraceni ci
hanno portato l’alambicco, che permette una produzione di distillato più
regolare, più pulita, soprattutto sana.
Da
loro e ancor oggi in uso vi sono parole che provengono etimologicamente : baita
che anche in arabo vuol dire casa. Cusa per loro e per noi: la zucca. Nelle
nostre campagne ancora ieri si chiamava sim il grasso di maiale con cui si
preparavano le candele, la parola viene dall’arabo siman. I saraceni chiamavano
el ramassin un frutto che anche noi chiamiamo nello stesso modo: una piccola susina, oramai quasi estinta.
Abbiamo
già raccontato di monaci benedettini, ma voglio dare un respiro più ampio al
raccontar di digiuni, di offerte di cibo nella tradizione non soltanto cristiana.
Fin
dal giungere in terra piemontese – con il martirio di san dalmazzo e con il
massacro della legione tebea – il cristianesimo segna profondamente la vita e
le abitudini del Piemonte. Massimo vescovo di Torino nei suoi primi sermoni
proclama che ciò che Adamo perdette mangiando, cristo recuperò digiunando. Ma
il segno maggiore la nuova religione lo lascia probabilmente verso la fine del
medioevo, quando cominciano le persecuzioni, quando si creano le minoranze di
popoli ma soprattutto di religioni, quando nasce l’inquisizione, quando più
severo ma anche contradditorio è il regime di vita e alimentare che viene
imposto.
Della
tradizione non soltanto cristiana rimane il significato profondo dell’offerta
del cibo dal povero al ricco, dal suddito al signore. Che significa ti sono
inferiore. I donativi più tradizionali nel medioevo sono: polli, focacce, uova
che per rispetto e devozione sono offerti al rappresentante della Chiesa e che
per contratto i contadini sono tenuti a offrire al proprietario della terra
sulla quale lavorano. Praticamente obbligatorio è anche albergare, mantenere
l’ospite e il viandante, siamo terra di passaggio della via del pellegrino,
offrirgli cibo e rinfreschi. OGGI NOI OFFRIAMO il caffè ma è pur sempre una
offerta di cibo che ripete un atteggiamento che risale all’antichità più remota
e che certamente il cristianesimo e il feudalesimo hanno rafforzato.
I
piatti che comparivano sulla mensa dei numerosi conventi benedettini erano la
pulmentaria polenta di cereali e che già nutriva i legionari romani. La zuppa
di verdure e i fladones sorta di torte a base di pasta frolla, con tanto burro
ricco condimento di queste zone di pascolo e dentro come delle scatole
racchiuse impasti di carni, verdure, dolci. Si macerava la frutta e spesso per condire
l’acqua la si acidulava con limoni e agro di aceto, per renderla più
commestibile. I monaci insegnavano la pratica della penitenza di quaresima,
dove la carne era bandita, anche quella dei volatili e aveva il sopravvento la
verdura e le uova e i pesci di fiume e lago.
Per
sfuggire a questo divieto, si inizia la pratica di allestimento di un piatto
denominato TONNO DI CONIGLIO, dove del tonno non v’è traccia. Le carni del
coniglio sono messe in carpione e ne deriva una consistenza e la tenerezza del
tonno, riuscivano a beffarsi del divieto di mangiare carni nei giorni di
quaresima o di vigilia.
Proprio
per queste trasgressioni, intorno al
1100 la chiesa emana dei divieti, arriva a condannare anche il
carnevale, cerca di stringere i freni, cercando di creare spazi per la
devozione.
Sappiamo
che il sovrano Arduino era dapprima contrario al potere ecclesiale, ne combinò
di ogni sorta contro vescovi e potere, divenendo poi un cristiano fervente,
istituì chiese, fece penitenze, cercò di preparare la sua anima per il
trapasso. Troviamo istituito e più avanti codificato nel 1391 un divieto di lavorare nei giorni di
festa religiosa. NE TROVIAMO PIU’ di 80 DIVIETI:
tutte le domeniche, i tre giorni di natale, la circoncisione,
l’epifania, l’annunziata, l’assunta, la natività di Maria, la concezione,
sant’Antonio, san Solutore, tre giorni
di pasqua, tre di pentecoste, l’ascensione, il corpus domini, santa croce, san
Giacomo, san Cristoforo, ognissanti, le feste di apostoli. E come ben
ricordiamo, in parte questo elenco di feste ci gratificò sino ad un poco di
anni or sono.
Astinenza
e digiuni sono imposti per circa la metà dei giorni dell’anno: nei giorni
precedenti le grandi festività religiose: pentecoste, assunzione, ognissanti e
natale. Nel periodo dell’avvento, la quaresima.
In questi periodi era obbligatoria la rinuncia parziale o totale del
cibo. Inoltre era vietati cibi di origine animale: carne, latte, uova, burro e
formaggio. Tutti i venerdì, i sabati di quaresima, il mercoledì delle ceneri,
le quattro tempora. Tre gg a febbraio, tre a maggio, tre a settembre e tre a
dicembre quasi in coincidenza con l’inizio delle stagioni. Ne deriva che si
instaura abitualmente un desinare composto di verdure ripiene di mollica e
latte, arricchito talvolta con uvetta sultanina se si commercia con l’oriente o
con l’impero di Venezia. Riconosciamo le cipolle ripiene. Foglie di cavolo che
racchiudono talvolta la cotenna di maiale e sempre mollica e latte e l’uovo. Pane raffermo alternato con formaggio
fresco e stagionato e foglie di verza.
Polenta fatta con semola, latte e quando rafferma impastata con uovo e
cotta nel grasso. Le uova, il latte e il
formaggio furono introdotte, con furbizia,
nei giorni di divieto stretto, impastando con mollica di pane ammollato
nel latte.
Piccola
cronaca dell’anno mille: in questa terra venivamo travolti dalle lotte per le
investiture tra Papato e Impero. E’ l’inizio della contesa tra Guelfi e
Ghibellini. Attorno alla metà del millecinquanta l’abate Benedetto di san
Michele della Chiusa prende posizione a favore del papa contro l’imperatore. Il
marchese Pietro di Savoia e il vescovo di Torino Cuniberto organizzano una
spedizione per cacciare l’abate, ma giunti in cima al monte si ubriacano,
dimenticano il motivo del viaggio e tornano a Torino senza colpo ferire. Ma vi
saranno operazioni molto più cruente verso altre religioni : vedi catari ,
occitani e valdesi, valser. Questi popoli furono messi a ferro e fuoco e dovettero emigrare,
scappare attestandosi qua e là nelle
valli. Anche nel canavese vi troviamo traccia, soprattutto nei ricettari e nelle abitudini: gnocchi
di punta di ortiche, la polenta
cuncia, le frittelle di uova, farina e toma, e nel seicento con l’avvento della
patata l’aggiunta di questo tubero magico. La putia polentina di farina bianca
di grano cotta in acqua e latte, riso e latte e riso e castagne.
Agli
ebrei insediati sul territorio noi dobbiamo l’uso dell’oca e i suoi derivati.
Oca e cavoli, oca ripiena di impasto di mollica di pane con farina di castagne
e riso, arrosto di oca, salame di oca.
Nonché
dei fiori di zucca ripieni di formaggio
e uova e fritti nell’olio. Le frittelle di varia forma e natura, le polpettine.
I nostri prati e orti
ricchi di erbe officinali usate per confezionare il pasto e ingentilire il suo
sapore. Ricordiamo l’ajocca che nei nostri alpeggi ancora cresce e serve per
allestire quella meravigliosa zuppa. L’ajett dei babi. Aglietto dei rospi,
l’aneto, la sedanina o erba bandoira, la bardana maggiore, l’assenzio gentile o
artemisia, lo sparagio spinoso per le frittate detto anche uvertin. Si usavano
anche le margheritine dei prati per fare le minestre, con borragine, ravizzone,
vari tipi di campanule, il buon Enrico o spinacio selvatico, la cicoria
selvatica che lessata e saltata con pancetta e spruzzata di aceto troviamo
ancor prima del mille. La ruchetta selvatica, il girasole o dente di leone, la
scarola, la lattuga selvatica, l’erba brusca che serviva anche per fare degli
involtini. Ricetta lasciataci dai franchi, rimessa in vigore in alcuni menù
d’oltralpe a cura di giovani e valenti chef . I sarzet che nelle vigne delle
colline di Chiaverano, nella mia infanzia andavo a raccogliere, e crescevano
spontanei e copiosi. Le foglie di vite,
per avvolgere pasticci sia di carne che di verdura. Naturalmente il prezzemolo, il basilico, la
mentuccia, salvia, il rosmarino, il timo, la rucola selvatica, i capperi che ancora oggi vediamo sporgere i
loro ciuffi dai muri antichi nelle nostre contrade.
Nelle cucine il medico era
presente per miscelare le erbe e spezie e soprattutto lo zucchero per favorire
la digestione, per curare malattie in particolar modo quelle dovute all’abuso
del cibo. Lo speziale, questo era il suo nome, aveva grande potere, maneggiava
un tesoro ed aveva nelle sue mani la cura della corte e del suo signore.