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giovedì 22 gennaio 2015

FOOD HISTORY - EUGENIE BRAZIER: la suffragetta della cucina francese

Eugénie, la grande gourmande, maestra di Bocuse

Ci sono storie che vogliamo raccontare e che ti arrivano senza cercarle, così all'improvviso ti imbatti in un nome o una pagina di libro che ti conducono ad una visione, ad un concetto che vuoi approfondire. Ed è così che mi sono imbattuta in questa storia, per caso, come se un folletto me l'avesse nascosta tra le righe di un leggere serale, per farmela conoscere ed infine amare.
Il suo nome è Eugénie ed è passata da anni a miglior vita, lasciando dietro di sé ristoranti, un premio a lei intitolato, soprattutto è iscritta nell'albo delle persone che lasciano un solco nella storia della ristorazione. Alla fine della lettura vi stupirete di quanto ha compiuto questa signora, così piena di risorse e di volontà di conoscenza e del fare, costruendo una storia di vita immensa e meravigliosa, una favola insomma!

Nasce in una fattoria nella regione di Lione, da famiglia popolare che svolge mezzadria e lei al compimento dei dieci anni andrà a lavorare come guardiana di mucche e maiali. 
Siamo alla fine dell'Ottocento: in quel periodo, se di famiglia non agiata, quando si arrivava all'adolescenza si andava dritti e filati a servizio nelle famiglie borghesi o a rompersi la schiena nei campi oppure a transumare animali. Anche se si era capaci nell'ambito scolastico, avevano bisogno anche del tuo quotidiano soldo e ti facevano abbandonare sogni e illusioni per andare a guadagnarti da vivere.
La ragazzina non demorde, anche in quell'umile frangente si guarda attorno essendo sveglia e capace, impara subito e comprende che deve  percorrere la sua strada con i sogni in tasca e i suoi passi veloci, con immense idee e cercando la possibilità di poterli attuare, con indomita volontà.
E fu così che a 19 anni incontra l'uomo che la fa sognare e innamorandosene si concede e rimane incinta, causando scandalo nel calpestare il pensiero dell'epoca che voleva le donne asservite a consuetudini a pie illusioni religiose.
Il padre è immerso nei pregiudizi e nella cultura del tempo e senza batter ciglia la mette alla porta, ma Eugénie non si scoraggia e organizza la sua nuova vita, mettendo al mondo un figliolo che metterà a balia e andrà a lavorare a Lione.
Compie il passo dalla campagna verso la grande città, piena di meraviglie e di possibilità e lei trova servizio in una benestante famiglia borghese, vestendo i panni della governante dei figli del datore di lavoro e divenendo poi la governante della magione.
Passa il tempo, arriva la guerra mondiale e lei continua il suo lavoro e il suo menage barcamenandosi come tutti in quella situazione: quando la guerra finalmente finisce Eugénie si sposta, lasciando il marito, perché la storia era arrivata alla consumazione e ad una svolta, che doveva compiere per non rimanere al palo. Così cerca e subito trova un posto nelle cucine di un noto ristorante in città, conscia di avere acquisito abilità culinarie e anche forza nelle sue possibilità di farcela, anche se da sola. Ha una grande e bella manualità, una conoscenza della materia con grande padronanza del lessico alimentare e della sua filiera, così come si sente di poter sfidare eventi e tempi e inaugurare una nuova stagione di vita; si getta con un pizzico di incoscienza in questa nuova avventura, e il tempo le darà ragione, perché la porterà sulle vette e parecchio lontano.
Diviene così padrona delle sue competenze e capacità, innovando e reinventando la tradizione; gli avventori si beano dei suoi manicaretti e sollecitano a mettere a frutto il suo talento, infine riesce a trovare agli inizi degli anni venti il capitale per aprire un ristorante tutto suo.
Nel ristorante di Eugénie Brazier nel 1964

E così inizia la più entusiasmante avventura culinaria di Eugénie così brava nel solleticare i palati esigenti, nel porgere novità e freschezza degli alimenti, un tripudio di novità e gusto in quella città dove accorrono da ogni dove, soprattutto personaggi della nobiltà, borghesia e della gourmanderie francese e non solo.
Così la sua popolarità corre di bocca in bocca ed arriva un famoso e sussiegoso critico gastronomico che rimane entusiasta e compone un saggio su questa giovane gourmande e chef e la sua notorietà varca il confine della regione e anche della nazione.
Mentre lei cresce, sente però che non ha ancora ottenuto tutti i traguardi che può comporre in questa professione e ha voglia di novità, di un luogo diverso, di tensioni diverse ed allora nel 1928 si prende uno chalet sperso sulle alture che non ha né acqua né elettricità e lo trasforma in un elegante luogo di ristoro per i villeggianti di passaggio e per il relax di costoro. 

Eugénie Brazier al colle di Luère con il figlio Gaston,
in apprendistato

Elabora una cucina semplice ma nel contempo strepitosa, evoluta però rispetto alla cucina regionale del tempo, ancora grezza e poco elaborata.

Su quella rotta che è anche luogo per pernottare e soggiornare, incappa un giorno un costruttore di macchine da corsa con tutto il suo staff, che alloggiano e si deliziano il palato con i suoi manicaretti quotidiani. Condizione vuole che in uno chaffeur di questo magnate, incontra l'amore, vede il suo nuovo futuro amoroso.
Lei cresce in quel luogo e arrivano le prime importanti soddisfazioni come le stelle Michelin, ottenendone tre in un breve lasso di tempo ed è la prima donna ad ottenere in terra di Francia e per trovarne altre dovranno passare anni: i nomi ascritti in quel firmamento saranno Ducasse, Veyrat e in America Keller.
Una donna in quell'olimpo, primo nome in un mondo fatto di uomini e quasi esclusivamente per loro, produce scalpore e induce tante giovani promesse del food a chiedere di entrare nella cucina di questa strabiliante chef.
Arriva un giovane trepidante al suo cospetto, un apprendista allampanato e dallo sguardo volitivo e fiero: il suo nome è Paul Bocuse e lei ne diverrà la sua mentore.
Sarà quindi lei con i suoi insegnamenti a dare al grande stellato Bocuse l'idea di nouvelle cuisine, di rivoluzionare il concetto di cibo e di degustarlo.
Intanto anche il figlio entra nelle sue cucine e lei lo mette a capo dei tanti ristoranti che apriranno via via e questo figlio talentuoso diverrà il suo stretto erede, passando mano anche al suo di figlio nonché nipote di Eugénie.
Il segreto è la conduzione famigliare che durerà per lungo tempo sino a quando il figlio lascerà tutto nelle mani di un altro talentuoso giovane chef, che è suo amico.

Esiste in terra di Francia un premio prestigioso intitolato ad Eugénie ed ogni anno incorona una promessa chef donna e fra le tante che han ricevuto il premio ed hanno collaborato con il ristorante di Eugénie e con Eugénie stessa vi è Nadia Santini.
Quella meraviglia ed eccellenza stellata di Nadia Santin è sulla vetta e nell'olimpo dei grandi da diversi anni e opera la sua maestosa dimensione gastronomica in quel di Canneto sull'Oglio, tempio indiscusso di gastronomia ad alto livello.
Ho avuto piacere ed onore di aver appreso le mie conoscenze e competenze con stage alle dipendenze sia di Paul Bocuse che di Nadia Santini, e ne ho imparato la semplicità dei gesti, la passione e la cura per i dettagli, il rispetto delle materie prime e il rispetto della tradizione che è la base per elaborare la costruzione di piatti per imprimere nella memoria gusto e sensorialità dello stesso.

Il ristorante Mere Braziere è a Lione al 12 rue Royale-  http://www.lamerebrazier.fr 


Se volete conoscere ed approfondire la storia di questa chef e della sua impresa vi consiglio un libro dal titolo: "Eugénie Brazier e le altre" di Alessandra Meldolesi.



lunedì 27 ottobre 2014

FOOD THE HISTORY - George Auguste Escoffier

Il cuoco dei re. Il re dei cuochi

Scrivere e raccontare di George Auguste Escoffier significa parlare dell'imperatore del gusto nonché del promotore della cucina francese. 
Lui sosteneva che l'arte culinaria doveva essere praticata con semplicità, valorizzando sapore e nutrimento dei cibi.
Questo suo pensiero l'ha perorato tutta la vita, lavorando indefessamente per costruire luoghi dove si santificava l'arte del gusto.
Come per molti uomini di quel tempo, iniziò a lavorare a 13 anni nelle cucine di uno zio in quel di Nizza; furono anni dove tutto il suo giovane sentire lo applicò all'arte dell'apprendere, tanto che a 19 divenne capo cuoco al seguito dell'Armat del Reno. Furono anni di guerra: fu al servizio del grande generale Mac Mahon, prigioniero a Sedan.
Appuntava tutto, verificava, progettava nel minimo dettaglio, un'arte che i cuochi di Francia han sempre avuto, allo stesso modo di illustri colleghi del passato. 
Per citarne qualcuno: Taillevent, Careme, ed ancora oggi i grandi chef sono ottimi organizzatori e imprenditori.
Finita la guerra ritorna a Nizza per lavorare sempre come capo cuoco e intanto il vento della Comune a Parigi spazza via teste e pregiudizi. Ritornando alla normalità lui sbarca al Petit Moulin Rouge che era frequentato da Gambetta, Princes de Galles, Sarah Bernardt e sempre il suo antico datore di lavoro, il generale Mac Mahon.
Fu un successo per i suoi menù, che lo renderanno celebre in futuro, con innovazione e sempre un occhio al passato glorioso della cucina del suo paese. 
I suoi menù sono veramente un'ottima fonte di studio per imparare ad organizzare una mise en place di stagione e di recupero. Possiedo il libro edito in Italia nel 1983 da una piccola casa editrice canavesana Serra e Riva ed è stato e ancora lo è fonte di consultazione per i miei studi e lavori.

Corre il tempo, cresce e diviene adulto, così che a 30 anni apre un suo ristorante a Cannes: Le Faisan Dorè; dal momento però che non è sua intenzione abbandonare gli avventori illustri della ville lumiere, segue con i suoi menù e la gestione di molti suoi ristoranti, ubicati non solo in Parigi ma anche in altre città importanti di Francia.
Amando progettare e sfidare il suo talento e la sua conoscenza, fonda una rivista: Art Culinaire, che ancora oggi viene editata con il nome di Revue culinaire.
Il 1883 è però l'anno della svolta: tramite il collega Jean Giroix prende contatto con l'uomo cardine del cambiamento, che l'avrebbe reso maestro assoluto della ristorazione, Cesare Ritzfondatore della catena omonima di alberghi di lusso nel mondo. 
Alberghi che saranno icone della Bella Epoque e di tanto lussureggiante divertimento dell'epoca.
Con Monsieur Ritz aprirà alberghi a Cannes, Parigi, Londra, (Carlton Hotel) Montecarlo, Lucerna, New York. Anche quando Ritz aprirà il Savoy di Londra, tornerà ad essere il braccio destro di questo imprenditore stellato fautore del buon vivere e del lusso.
Carlton Hotel - Londra 1906

Comprende che avendo molta carne al fuoco deve darsi un'organizzazione per la gestione e per i menù, mettendo a punto una progettazione per il servizio di ristorazione che sarà pietra miliare per il futuro di chi vuole operare in questo settore. Sempre e comunque promuoverà la cucina del suo paese, la cucina francese, l'haute cuisine.
Lo vediamo anche progettare menù per le compagnie di navigazione, ma una geniale trovata saranno i Dinner d'Epicure sulla scia del nome di una nuova rivista di gourmanderie: Le Carnet d'Epicure.
Tra il 1911 e il 1914 lui organizzerà i menù per queste cene eleganti e dalle pietanze eccellenti ed innovative per promuovere i fasti della gastronomia francese in diverse città del mondo in contemporanea. Saranno 147 le città che vedranno tenere corte alle sue tavole illustri cittadini, celebrità del tempo, attori di cinema, artisti e letterati. Sarà un successo planetario che rinvigorirà i fasti del suo nome e della collaborazione con Monsieur Ritz.

L'incontro con Ritz segna quindi il grande cambiamento del secolo: il turismo diventa un fenomeno mondiale, con l'apertura di ristoranti, grandi alberghi, treni di lusso e transatlantici. I nobili e i grandi borghesi escono dai loro castelli e dalle loro residenze per rifugiarsi nei grandi hotel. 
Escoffier cavalca il momento gestendo ed inventando un nuovo tipo di ristorazione, adatta alla grande borghesia dell'epoca (è sua l'invenzione delle brigate in cucina).
Con Escoffier, nei grandi hotel gestiti con Ritz, fu abolita la "table d'hôte", laddove si mangiava tutti in comune ad orari prestabiliti, e questa venne sostituita da tavoli individuali. Il maitre era la figura più importante, e la scuola italiana delle tecniche di servizio era il punto di riferimento imprescindibile.
All'epoca la ristorazione era molto diversa da quella odierna, non c'era una cultura culinaria vera e propria, anche tra le classi più agiate.
Escoffier cerca di alleggerire i piatti montati, con orpelli inutili ed anti-igienici, alleggerendo le portate ma cercando di aumentare il numero di preparazioni e di varianti sul tema dei cibi. Inventa piatti e pietanze quali ad esempio la famosa Peche Melba in onore della soprano Nellie Melba.
I clienti sono stranieri e va incontro ai loro gusti: studia e codifica le ricette inglesi, russe, spagnole, medio orientali ed anche indiane. Questa si identificherà poi come cucina internazionale.
Nell'organizzazione della cucina fu un vero innovatore: fino ad allora, ogni lavorante doveva saper fare di tutto. Escoffier istituì una divisione scientifica e organigrammatica del lavoro: al vertice lo chef, controllore ed organizzatore. Al secondo posto, Entremetier, dedito alle preparazioni con le uova, soufflés, guarnizioni, antipasti e piatti freddi. Talvolta direttamente sotto lo chef il saucier. Di seguito, i capi-partita: il pasticciere, il rotisseur, il poissonnier, il potager... Poi la commis, tutta la schiera degli aiuti, e per finire gli sguatteri. Nella biografia di Escoffier, Eugene Herbodeau ne da un esempio per indicare il procedimento per la preparazione di una pietanza ordinata:
« per le "due uova alla Mayerbeer" sono ben quattro le persone a darsi da fare: l'entremetier cuoce le uova al burro, il macellaio taglia il rognoncino di agnello, lo apre in due e lo porta al rosticcere che lo cuoce alla griglia, il saucier prepara la salsa Périgueux, e tutto vien fatto confluire al Pentremetier che compone il piatto (rognone appoggiato sulle uova, corona di salsa al tartufo) e, in pochi minuti, il cliente è servito, con « mercé » ben calda e in condizioni ottime."
Una tipologia di grande organizzazione che rimane valida ancor oggi, anche se solo ad alti livelli. Oggi piuttosto si ritorna ad una tipologia di organizzazione dove il cuoco deve saper fare di tutto, questo dovuto alla difficoltà nel reperire personale qualificato e ai costi del lavoro. 
Ricordiamo che Escoffier prevedeva una brigata di sessanta persone, cosa rarissima oggi, anche e forse nelle grandi navi da crociera.

Per quanto riguarda gli scritti, ci ha lasciato tre importanti libri: "Le guide culinaire" (La guida alla cucina), "Le livre des menus" (Il libro dei menu) e "Ma cuisine" (La mia cucina), opere che tuttora sono prese a modello nella teoria e nella pratica della grande cucina classica e internazionale.
Senza dubbio Escoffier fu il più innovativo, creativo manager della ristorazione di inizio secolo, e lasciò ai posteri importanti testi su cui fondare l'arte della gastronomia e della tavola.
Georges Auguste Escoffier morì a 93 anni, nella sua casa di Monte Carlo, il 12 febbraio 1935. La notizia passò sotto silenzio, sia in Francia che in Italia . Fu sepolto a Villeneuve Loubet,  e qui, l'anno dopo, venne eretto un piccolo monumento, che si può considerare come unico esempio marmoreo di ricordo pubblico ad un cuoco. 

martedì 20 maggio 2014

FOOD HISTORY - Buon compleanno, NUTELLA!

50 ANNI ed essere sempre, immancabilmente... ever green!

Sono cinquant'anni che è stata messa in commercio ed è sempre come ieri. 
Una passione alla quale nessuno rinuncia, aprire quel tappo e mentre lo sviti ti assale quel profumo che ti mette di buon umore.
Mi ricordo un lontano giorno a Bologna quando per divertimento, facevo lezione a molte signore di una certa età sulla bontà del cioccolato come scacciapensieri, in sostituzione di certe medicine e brandendo una fetta di pane lo spalmavo con generosa crema prelevata da un enorme barattolone di Nutella... “bread and chocolate” sentenziavo e ci tuffavamo con gusto, macchiandoci labbra e naso con la crema.
E' la più famosa spalmabile nel mondo ed è nata per l'appunto nel 1964 dalla mente del fondatore della Ferrero: il signor Pietro che ne ha passato al figlio Michele il goloso testimone e questo ultimo ha pensato di rafforzare la vendita e dalla provincia passarla al mondo. La provenienza è la città di Alba che è ricca di storia, e nel suo centro storico ora vi sono ristoranti che dal mondo vengono per degustare preziosi manicaretti. Detengono anche una Fondazione che si occupa meravigliosamente di arte e cultura e editano libri sempre molto ben costruiti e importanti. Attorno c’è un paesaggio e gente tenace e concreta, con i filari della vite che ingentiliscono paesaggi e profili e i passeggi per i borghi che ti rimangono attaccati nella memoria.


Si chiamava “supercrema” e lui la fece diventare NUTELLA usando NUT che in inglese vuol dire nocciola con una desinenza cremosa, che ora sul mercato delle industrie ha un peso quotato in borsa e la vendita di mille tonnellate di prodotto al giorno sul pianeta terra.
L'hanno poi spalmata in vari altri prodotti dell'azienda, come ad esempio nei cioccolatini e negli snack, ma da sola è la principale golosità che ci si concede già dal mattino. 






Mette allegria, dona il buon umore, ti toglie le ansie nei momenti bui, ti fa tuffare dentro con foga quando hai una perplessità.

Anche Nanni Moretti la immortalò in un suo film, con un barattolone gigante, come metafora del tuffarcisi dentro e cancellare ogni dubbio ed angoscia; proprio perché il cioccolato è questa panacea e ti riporta ad essere bambino e darti placido momento gustoso tutto per te.
Ora le nocciole per tanta merce non sono più solo piemontesi, ma provengono dai mercati turchi, così come l’olio di palma dalla Malesia, cacao dalla Costa d'Avorio e Nigeria, la vanillina dagli Stati Uniti. Insomma una globalità che trova poi rimando nel trovarla su tutti gli scaffali di markets e negozi del pianeta.
E' un vanto per questa sabaudia che è patria della pasticceria al cioccolato, quando a metà dell'Ottocento i pasticceri valdesi cominciarono a sostituire il cioccolato con le nocciole, per sopperire ad un prezzo esoso dato dal blocco delle importazioni imposto dalla Francia. Le nocciole non costavano nulla e tendevano la materia cremosa, forza nel sapore e anche quella certa finezza nel gusto.

Vi fu un certo pasticcere piemontese, tal Michele Prochet a commercializzare il primo gianduiotto in coincidenza con il Carnevale di Torino ed era il 1864; da quel dì lontano la cultura alimentare piemontese compì un connubio che non ha mai conosciuto crisi.
Ora la nostra detiene un potere commerciale alto, domina la classifica nel mondo delle creme in vasetto, mentre altri piccoli pasticceri e imprese artigiane ne continuano la tradizione con ricette eguali ma con piccola commerciabilità.
Personalmente acquisto la prima e anche le seconde, portandola anche con me in India, sin quando ne ho trovata sugli scaffali di un market ed allora me ne approvvigiono in loco. Anche gli indiani ne sono golosi e infilano dita e cucchiaini con gli occhi che si illuminano.

Si può usare per il gelato, in questo caso la mixerete a freddo aggiungendola a latte, panna e zucchero.
Per la brioche, farcendola con la sac a poche, volendo diluendola con un poco di marmellata fluida o con un cucchiaino di panna.
Per una crostata di frolla, amalgamando la crema con qualche cucchiaio di ricotta e una spolverata di nocciole tritate.
Per i muffin fatti di farina, zucchero, lievito mescolati con uova, latte, burro fuso e poca crema. Negli stampini con la pastella un cucchiaio di crema fredda e poi infornare.
Per i biscotti mettendo pari quantità di crema e farina e un uovo intero. Versare poi con i cucchiaini l’impasto sulla placca del forno foderata con silpat e 8 minuti dopo avrete una bontà guduriosissima.
COURTESY http://redmango.tumblr.com/
Gli ingredienti per questa crema sono le nocciole ed è preferibile sempre la tonda della Langhe Igp, chiaramente ne stiamo parlando se volete esprimervi in loco e farvela da soli. Sono comunque la base anche di quella industriale Ferrero. Il cacao verrà separato dalla massa del suo grasso pregiato e immettendo il burro di cacao nella miscela si otterrà spalmabilità e fragranza.
Poi c’è lo zucchero, da quello bianco a quello di canna grezzo con il latte che è rigorosamente in polvere e quasi sempre in versione magra. Ma può essere sostituito utilizzando il cioccolato al latte e per i vegani niente latte oppure latte di soia o di riso.
Infine la vaniglia che è di prima scelta, utilizzando i semi dei preziosi baccelli di Vanilla planifolia Bourbon del Madagascar o dell'isola della Reunion. Nelle produzioni di basso costo si mette la vanillina.


L'industria Ferrero ha poi usato fior fiore di pubblicitari e copy per far conoscere questo brand e ci sono riusciti davvero con molta efficacia tant'è che nessuno rinuncia a mettere nella borsa o carrello questo prodotto.


Il brand è il nome che identifica un prodotto di un determinato marchio e il primo brand della storia deriva dal nome della cuoca di Proust che determinò la Madeleneitte biscotto che lo scrittore evoca. La sua cuoca si chiamava Madeleine Paulmier.
Così i playboy vengono chiamati dongiovanni perché Don Giovanni di Mozart era un playboy e così oramai ogni brand viene scritto con la minuscola e pure la nutella lo è, segna il successo e l'eccellenza appunto. Si ha una commistione  che però dal punto di vista commerciale talvolta ne determina anche esclusività, nonché controlli per legittimarla e rimandare il nome comune a quello proprio.
Appunto per questo il naming più recente flirta con la grammatica e prende i suoi nomi propri nel vocabolario e crea una zona franca lessicale fra specie merceologiche e singoli prodotti, dando affidabilità al brand e un colloquio intimo e privato, rivestendo industria di naturalezza e intima focolare vita.

Resta comunque un gustoso snack o una colazione energetica, una pausa del quotidiano affanno, oppure una chiusura di giornata, lì nel “bread and chocolate” che ti fa sporcare dita, punta del naso e labbra e ringrazi coloro che han racchiuso tanto cremoso supporter emotivo in un barattolo, che talvolta lavato poi racchiude altri alimenti e ritorna utile sugli scaffali della tua quotidianità......ringrazi i Ferrero e anche colui che nel lontano Ottocento ha impastato tali ingredienti ed ha dato vita a tutto questo.

sabato 14 dicembre 2013

FOOD PLACE - Le tradizioni piemontesi nel menù di Natale: il cappone

IL CAPPONE di MOROZZO: 
un classico piatto delle feste

Quando si parla di un cappone non si parla di un pollo qualsiasi.
Dicasi cappone un pollo di razza bionda, che crescendo avrà una lunga coda nera con riflessi metallici e le penne lucide di un rosso mattone orlate di blu o di verde. 
E' un pollo a cui evireranno gli attributi maschili: il gallo castrato diverrà quindi cappone e avrà delle carni con una consistenza tenera e morbida.
Il migliore è quello che allevano in Morozzo, ameno paese del cuneese che ha rirovato energie produttive incrementando questo allevamento.
Singolare è il fatto che ad occuparsi di questo tipo di allevamento, in maggior parte siano le donne.
Vi è una precisa disciplinare per allevarlo, rilanciata anni or sono da Slow Food, che l'ha fatto   diventare un Presidio.
La disciplinare prevede che venga nutrito a base di grano, mais e qualche volta soia; i capponi sono voraci alquanto, senza comunque raggiungere mai un peso eccessivo. Deve essere allevato rigorosamente a terra, e non in gabbie. L'alimentazione è costituita da prodotti esclusivamente vegetali, escludendo quelli di origine animale, senza antibiotici o fattori migliorativi della crescita.
La sua carne è senza troppo grasso come per le altre razze che vengono adibite a divenir cappone; è quel tanto di grasso che lascia la carne soffice e succulenta, mai stopposa.
Ogni presidio non potrà mai detenere più di 200 esemplari cadauno; si avranno 500 uova iniziali di questa razza, che schiuderanno tutte e i pulcini si divideranno equamente fra maschi e femmine.
I maschi saranno castrati, un'operazione chirurgica che deve essere precisa e delicata per non compromettere la salute dell'animale.
Sino ad un anno fa, parimenti alla castrazione, si tagliava anche la cresta per un fatto estetico, perchè dopo la castrazione la cresta tendeva a diventare brutta e priva di vigore. Sembra però che si voglia decidere di tenerla nel divenire.
La macellazione avviene in dicembre ed un mese prima il veterinario del consorzio andrà a visitare gli allevamenti per verificare che gli standard siano in regola: vale a dire testa e zampe fini, orecchie gialle, castrazione ben fatta, peso intorno ai 2.5 – 2.8 kg. Quindi si applica sulla zampa il marchio numerato che ne certifica la qualità e la tracciabilità.
Vi è una clientela affezionata a questo prodotto, ma non molti giovani, perché questi ultimi preferiscono i polli di batteria da cucinare alla svelta, non come appunto capponi, faraone galline o polli ruspanti allevati all'aria aperta, che prevedono più cura e tempo per la definizione del piatto.
Per invertire questa tendenza bisogna applicare tanta informazione soprattutto sulla fascia giovane della popolazione, spiegando loro gusti e modalità lente per avere una cucina fatta di gusto e sapore. 

A Morozzo ci sarà domenica 15 e lunedì 16 dicembre 2013  la fiera del cappone, che vedrà il paese animarsi di persone: ristoratori e negozianti  verranno ad aggiudicarsi la migliore produzione, per servire sulle tavole delle feste questo prodotto molto prelibato.
La regina degli allevatori di Morozzo è una donna, molto dinamica e volitiva, che ha preso in mano dall'inizio anche l'associazione e il presidio, dando un impulso nuovo a questo allevamento e anche prospettive economiche ai giovani e ad altre donne.
Solo così continuerà la tradizione e la possibilità di poter assaporare la gustosa carne del cappone di Morozzo.

QUALCHE INDICAZIONE PER CUCINARLO
Un modo abbastanza semplice è quello di metterlo semplicemente in pentola e bollirlo con carote, sedano, cipolla e poi servirlo con salsa verde, maionese fatta in casa, bagnet rous.

Si può anche optare per la farcitura: aprirlo e inserirvi un impasto fatto con del salame cotto, le uova, il pane bagnato nel latte, prezzemolo e parmigiano - tutto sminuzzato. L'impasto va cotto precedentemente con olio, burro e cipolla rosolata e tanto rosmarino, a pieno fuoco aggiungendo del buon brodo per non farlo asciugare troppo;si potrà poi proseguire la cottura in forno, all'interno del cappone. 

Un terzo metodo è quello di disossarlo e farlo divenire una spianata. Si avrà quindi una preparazione tipo rolata, con dentro avvolte le fette di prosciutto crudo,la pancetta, le castagne imbevute nel latte, i funghi secchi ammollati nel vino bianco e strizzati, per finire con i tartufi. 
Si fa poi rosolare nel burro e con il rosmarino, bagnandolo con generoso Arneis del Roero.

Per chi vuole saperne di più:
http://www.capponedimorozzo.it/

giovedì 12 dicembre 2013

FOOD PLACE - La fiera di Carrù e il bue grasso piemontese

IL BUE GRASSO DI CARRU'

Anche per il bue è arrivato il tempo della fiera e le strade di questa cittadina alle porte della Langa si riempiranno tra poco di negozianti, visitatori, intenditori, allevatori e avventori per le tante trattorie della città e della zona.
Il bue è un animale grosso e grigio di colore, una particolare razza piemontese denominata fassona, che è tutta coscia e polpa scura e gustosa.
La fiera di Carrù inizia oggi, 12 dicembre, con un'asta mondiale, con offerte che arrivano anche da Hong Kong, per aggiudicarsi il migliore esemplare.
Si avranno premiazioni e gualdrappe per il miglior capo e il miglior allevatore, e al mattino presto tutti costoro che han dedicato tempo e passione al loro pupillo, si ritroveranno al mercato per assaporare la minestra di trippe e brodo caldo per ristorarsi.

Questa fiera proviene dai tempi lontani, risale al 1453, quando a Carrù c'erano dei mercati del bestiame che avevano scadenza bisettimanale. Amedeo I di Savoia scelse poi di farla divenire fiera a scadenza annuale nel 1635, per farla crescere e divenire importante. 
La prima fiera vera e propria si svolse il 15 dicembre 1910 per volontà dell'Amministrazione comunale di Mondovì e del Comizio Agrario, in conseguenza di una grave carenza di animali da macello. Nel tempo la fiera è cresciuta, concentrando l'impegno nell'allevamento e la prestanza del bestiame, che è divenuto riconosciuto e apprezzato notevolmente.

Nei ristoranti in occasione della fiera troverete il bollito misto composto di svariati pezzi di bue, compresa lingua e testina, e talvolta il cappone e il cotechino. Le salse sono le classiche: il bagnetto verde, quello rosso, la maionese, la salsa tonnata, la salsa bianca, la salsa verde con aceto detta delle avie, cioè delle api.
Gustosa la minestra di trippe, il bue fassone arrosto che è anche lui un classico piatto piemontese, cotto in generoso Barbera con un battuto di verdurine tritate fini e sempre il profumo del rosmarino. Volendo un tocco particolare, qualche foglia di alloro.
Famosissimo ormai il padiglione riscaldato con il "Bollito non stop, dove si mangia dalle 9 di mattina fino a tarda sera. 

La bruma avvolge oramai le viti e le colline, ci si rintana al caldo delle trattorie o delle case, tra amici, si discorre sul tempo, ci si infervora sulla politica, ci si lascia andare ai ricordi innaffiati da inebrianti nebbioli e dolcetti.
Sulla tavola candida di lino o fiandra, vedo lo scintillio di cristalli e il buon servizio delle feste, grandi vassoi di bolliti misti e arrosto accompagnato dal purè, quello fatto con le generose patate di Langa, latte fresco delle mucche lì nella stalla accanto e il grasso e gustoso burro di qualità.
Un menù della tradizione fatto per rimanere legati alla nostra tradizione terragna e sabaudamente svizzeri, come sostiene la mia amica Elisa.

Qui di seguito tutto il programma:

DOMENICA 1 DICEMBRE  
• ore 11:30 inaugurazione Carrù Expò: vetrina enogastronomica delle eccellenze del territorio 
• ore 13:00 pranzo gran bollito di Carrù 

SABATO 7 DICEMBRE 
• ore 21:00 ballo liscio nel palafiera con l’orchestra Marianna Lanteri 

DOMENICA 8 DICEMBRE 
• ore 10:30 presso il foro boario, 8^ asta del bue di Carrù 
• ore 13:00 pranzo gran bollito di Carrù 
• ore 18:00 inaugurazione del 12° Presepe d’Autore, realizzato da Danila Ghigliano, presso la Chiesa dei Battuti Bianchi, a cura dell’Associazione Culturale Amici di Carrù 
• ore 21:00 rappresentazione teatrale “A cena con Napoleone”, presso il Teatro F.lli Vacchetti  

MARTEDI’ 10 DICEMBRE 
• ore 20:30 cena bourguignonne con filetto e salsiccia di bue 

GIOVEDÍ 12 DICEMBRE 103^ FIERA NAZIONALE DEL BUE GRASSO 
• bancarelle per tutto il paese, esposizione di macchine ed attrezzature agricole 
• dalle ore 9 fino a tarda serata, presso il palafiera, distribuzione bollito “no stop” 
• ore 11:00, presso il foro boario, premiazione e passerella espositiva dei buoi e manzi 

SABATO 14 DICEMBRE 
• ore 20:30 cena con i quattro prodotti di eccellenza del cuneese: bue di Carrù, cappone di Morozzo, lumaca di Borgo San Dalmazzo, porro di Cervere 
• ore 21:00 spettacolo del Piccolo Varietà di Bra, presso il Teatro F.lli Vacchetti 

DOMENICA 15 DICEMBRE 
• fiera dei frubi, mercato delle festività natalizie con antiquariato, artigianato, collezionismo, prodotti tipici locali, info 3483167773 
• ore 13:00 pranzo gran bollito di Carrù 
• ore 17:00 11° Concerto di Natale “Memorial Pierluigi Gonella”, offerto da Associazione Commercianti, Coldiretti e Confartigianato Carrù, presso il Teatro F.lli Vacchetti, con il gruppo La Racconteria nello spettacolo “Il racconto dell’isola sconosciuta”; al termine, distribuzione gratuita cioccolata calda davanti all’ufficio turistico. 

Tutti i pranzi e le cene si terranno presso il palafiera in Piazza Divisione Alpina Cuneense ed è obbligatoria la
prenotazione tramite e-mail info@prolococarru.it o fax 0173750220. 

Per informazioni cell. 3385866132 o www.prolococarru.it. 

Nelle domeniche 1°, 8 e 15, alle ore 11:00 ed alle ore 17:00, visite guidate nel centro storico, con inizio da Piazza Dante, a cura dell’ufficio turistico. 

29 nov. 15 dicembre 2013
FIERA NAZIONALE DEL BUE GRASSO

domenica 15 settembre 2013

FOOD HISTORY - La grande tradizione della Val d'Aosta, i formaggi e gli alpeggi

LE MUCCHE DI LIGNAN nella valle ST. BARTHELEMY 

Trascorrere dei giorni in montagna è sempre bello e salutare.
Accanto a me, a un'ora da casa mia che è nel Canavese, vi sono luoghi meravigliosi di pace, lì tra le montagne della Valle d'Aosta, regione ricca di storia, di flora e fauna.
Montagne che si prestano a escursioni di ogni tipo e difficoltà, comprese le grandi imprese epiche, ma se non si vuole strafare, con semplice leggero passo ti puoi immergere nei boschi di conifere, attraversare pendii e prati colmi di fiori variopinti e meravigliosi, con il lontano scampanio delle mucche agli alpeggi.
I prati in fiore, con varietà botaniche innumerevoli, dai colori giallo intenso, viola, bianco, rosa, azzurro, blu avio e dalle forme innumerevoli.
Un verde smagliante dato dalla neve anche tardiva caduta e dalle piogge che fanno di questa estate un'anomalia; infatti i ruscelli sono rigogliosi e scorrono arroganti nel loro alveo, dando segno di abbondanza, lontano dal pensare che questo bene prezioso scarseggi. Bisogna porre attenzione invece, perché ora è abbondante, ma può succedere di ogni e quindi scarseggiare, dandoci enormi problemi a noi abituati anche - talvolta - a sciupare.
Questa settimana immersa in questo idilliaco piccolo borgo, verso i duemila metri di quota, con le montagne della catena delle Cozie, dai nomi strambi ma con ancora residui di neve e i ghiacciai fermi e non arretrati, mi han fatto bene, permettendomi di conoscere da vicino alcuni aspetti.
Questo piccolo borgo è Lignan, con le sue case di pietra, costruite ancora come un tempo lontano e come si continua a fare per volere dell'amministrazione di questa regione autonoma, lì adagiato tra pendii e prati, con la strada che sale e il piccolo borgo di Venoz, un gioiellino ristrutturato talmente bene che sembra finto.

Fiori ai davanzali, nei piccoli giardini racchiusi da staccionate con legni antichi, tra i cavoli, barbabietole, insalate, patate e lupini, papaveri di montagna, peonie che sono ancora d'incanto e la pietra che riluce al sole a contrasto con il legno lucido e i tetti di scandole di ardesia.
Alzi lo sguardo e vedi fabbricati locati sulla montagna, con la sua abitazione a fianco e il resto le stalle e tanto alpeggio d'intorno, perché qui si fa il fieno, qui si allevano le mucche per fare il formaggio, orgoglio e eccellenza italica e PIL per economia della valle e della penisola. 
Qui si lavora sodo: ci si alza alle tre di notte per mungere, poi si portano le mucche, le manze, i vitellini piccoli al pascolo dentro questi meravigliosi prati colmi di colore e di forme. 

Loro brucheranno sino alle tre del pomeriggio, sino a che riandranno alla stalla per essere nuovamente munte, riuscendo nuovamente dopo due ore per andare a brucare sino al calare del sole.
La valle è aperta, il sole tramonta alle 9,30 in questo luglio strambo, le nuvole corrono veloci e questo latte andrà lavorato col calderone di rame enorme, sulla fiamma, per poi, con pezze di tela antica, ripreso dal caglio a formare la sagoma.


Parliamo della FONTINA o FONTINE alla francese, che è la seconda lingua, oltre al patois che è il dialetto variante di ogni valle e contrada. Ha la sua bella DOP e sembra che la sua produzione risalga al 1270, come da fonti iconografiche di affresco nel castello di Issogne, gestita e controllata dal Consorzio Fontina e Cooperativa produttori latte e fontina.
Questo formaggio dal sapore forte, gustoso con la sua pasta grassa semicruda, con un'acidità naturale di fermentazione, vuole esclusivamente il latte proveniente dalle mucche di razza valdostana, che sono pezzate nere o pezzate marroni. Si usa, come da DOP, solo il latte  munto da non oltre due ore e di una sola mungitura al giorno. Con l'altro latte si fabbrica il burro, quello grasso e giallo che poi marchiano con legni intarsiati talvolta con lustri di anzianità. 
Oppure viene fabbricata una toma gustosa, di pasta compatta, che può essere fresca stagionatura o a lunga stagionatura; ciò che il Consorzio non timbra, viene venduto anche negli alpeggi come formaggio valdostano e sono molto rigidi a riguardo. Han ragione, perché la tutela serve a questo, per mantenere standard di qualità e il buon nome del prodotto e di chi lo costruisce.

Torniamo alla produzione della fontina: la forma ottenuta verrà messa prima su assi di legno ad addensare e spurgare, poi passerà in un locale apposito dove la temperatura viene costantemente tenuta sotto controllo, una specie di frigorifero con stagere di legno, con le pareti di pietra e il pavimento di ghiaia di fiume. 
Lì adagiate stagioneranno e andranno poi a comporre la fontina che ci servirà in cucina come base della fonduta, oppure semplicemente mangiata con le patate di altura bollite e condite con burro di alpeggio, o ancora semplicemente consumata solitaria con salse e marmellate.
Questo tipo di formaggio si presta ad essere anche inserito nella bistecca impanata, che a differenza della milanese, viene farcita con una fetta generosa di fontina e richiusa e fritta nel burro.
E' una cucina forte e saporita, quella di montagna, perché il lavoro richiede energie e il freddo comunica al corpo che ha bisogno di calorie...
Ciò che resta del siero del latte viene riscaldato sul fuoco e si fa affiorare la BROSSA, una schiuma bianca che man mano che si forma la tolgono con un mestolo piatto e largo e la mettono poi a condire a freddo o a caldo la polenta.
Per fare la forma si usano le FASCERE DI FAGGIO, usate per tenere insieme la cagliata durante la pressatura e far uscire il siero, che chiamano AROTCHON; il luogo dove lavorano il caglio per costruire la pasta si chiama MEZON DE FOUA' che vuol dire stanza con camino della PEIRA ovvero pietra.
Un tempo queste forme venivano trasportate dagli alpeggi a valle dal pastore stesso, l'ARPIEN, così chiamato, e issavano la forma sull'AOUJI, uno strumento in legno con due manici e con un piatto issato sopra, quasi sulla testa. 
Con questo trabiccolo al collo scendevano a vendere il loro bene prezioso; ovviamente ora tutto è cambiato, gli alpeggi sono raggiungibili anche con strade percorribili e mulattiere agibili anche al passo non fermo.
La cucina valdostana è molto varia e cambia di valle in valle, ma ha molto in comune con tutta la regione, cambiano magari alcune modalità e ingredienti. Ma la fontina la troviamo sparsa in molte ricette, così come il burro. Hanno il pane di segale, la carne e il Jambon de Bosses che è cotto alla brace, lardo, la motsetta (mocëtta, in italiano mocettache è carne essiccata di stambecco e camoscio, il boudins che altro non è che una salsiccia di maiale con spezie e barbabietole rosse, la peilà che è minestra fatta con farina di segale, pane, fontina, burro e riso che si coltiva in valle di Cogne grazie ai Piemontesi, i quali lo usano cucinare anche con castagne e latte, oppure con fontina. La polenta è quella macinata grossa che condiranno con burro fuso oppure con toma e fontina.
Quella fetta di fontina è frutto di tanto lavoro, di tempo a riposare nelle cantine e di quei fiori che compongono il pasto delle mucche.

Abbiamo fatto amicizia con due pastori, Lino e Giuseppe, che da generazioni lì risiedono e fanno quel lavoro, portano avanti la tradizione famigliare e ne sono orgogliosi. Ti donano quel primo sale che in piccole proporzioni ogni giorno fanno per il loro uso quotidiano, ed è bontà, si va a prendere quotidianamente il latte con il pentolino apposito e bevi questo forte sapore di montagna e profumato di erbe e stalla.
Le mucche sono ben tenute, perché è un immenso patrimonio anche in termini monetari; crescono i vitelli, e qualcuna sarà anche preposta per diventare REINA.
La battaglia delle Reines in valle d'Aosta è una grande tradizione antica, si alleva la più bella mucca e quella che ha l'attitudine: in genere sono nere o marroni scure e devono essere pregne per combattere. Mi ha spiegato il pastore Lino che in questo modo sono più preponse all'aggressività e quindi nell'affrontare l'avversaria con le loro corna perfette.
Ci siamo bevuti aperitivi con la scodella, seduti in questi campi occhieggianti fiori, attorno le mucche che brucavano e il cane pastore che non perdeva un attimo le loro mosse. 
Il cane è alleato e fido compagno del pastore, che deve a questo animale dagli occhi talvolta di diverso colore, il buon andamento del pascolo e la possibilità di riportare a casa tutta la mandria sana e salva. Infatti il rischio è che  la mucca può allontanarsi per brucare un ciuffo accanto ad un burrone e scivolare a valle, perdendo la vita e causando grosso danno al pastore.

Parliamo infine del vino: quello valdostano è vino d'altura, forte e generoso. Compongono anche un moscato e un passito, con la raccolta dell'uva a tardo autunno che ha ricevuto la prima neve ed è oramai appassita e piena di sole e ghiaccio. 
La vite è coltivata in quasi tutte le valli a comporre diverse varietà, importante per l'economia della regione, ed è fatica anch'essa coltivarla perché i pendii sono ripidi, bisogna pulire a forza di braccia e la raccolta avverrà con le gerle e la forza dei muscoli e delle gambe.
Oramai ci trovi a lavorare indiani, marocchini, rumeni; lavorano nelle stalle e nella produzione del formaggio e ci dicono che sono bravi, attenti e forti lavoratori, imprescindibili per portare avanti questo lavoro.

Mi sono affezionata ad una mucca, manza per esattezza, pezzata marrone chiaro e bianco, con la sua campanona al collo che è ingegno artigianale perché collare di cuoio intarsiato e metallo, fabbricata da artigiani sapienti e non deve mai essere troppo invasiva.
Al suo orecchio porta il segno 6856 e ho notato dal mio balcone con vista vette e pendii, che ogni giorno era la prima ad arrivare al pascolo e se ne stava tutta sola in disparte, quasi non volesse condividere con il branco, forse voleva assaporare il suo brucare in santa pace. Questa manza era anche la prima a lasciare il pascolo e a tornare a casa, nella stalla. 
Si metteva d'innanzi alla finestra ad attendere "che venisse attaccata", questo è il verbo che usano. 
Giuseppe, il pastore, ci ha sorriso alla richiesta del perché, dicendoci che quella mucchetta ama andare in giro come un turista, vagabonda e solitaria, ama viaggiare e ogni tanto deve anche andare a prendersela, perché si attarda sul pendio e viene notte, muggisce e lui dall'alto la incoraggia al rientro.
Ma capita di rado, perché in genere è la prima a tornare, ama la finestra e guardare fuori, è una mucca curiosa.
Se ti porti del sale in tasca e glielo porgi, loro lo prendono con quella enorme lingua rasposa, scuotendo felice la coda e poi ti fissa intensamente...

Questi sono i nostri borghi, la nostra storia, il nostro cibo, la nostra gente, la convivialità e la semplicità che sono parte della nostra cultura e del nostro patrimonio, che non deve essere disperso ma incoraggiato ed aiutato, facendo anche conoscere la fatica e le gesta, nonché luoghi e prodotti che sono fatti con cura e genuinità autentica.

domenica 9 giugno 2013

FOOD HISTORY- L'alimentazione ebraica ai tempi della bibbia

Note di storia antica - Civiltà ebraica

L'alimentazione nella civiltà ebraica ha subito molte variazioni nel tempo, come si può immaginare. 
Nell’epoca nomadica più antica il vitto era semplice e poco saporito e le spezie rare in quelle terre desertiche. I cibi potevano essere facilmente seccati e conservati per l’arido clima e non si potevano portare troppe provviste durante i viaggi.
Come il patriarca Abramo, i nomadi cercavano in continuazione nuovi pascoli più ricchi per le loro greggi: il latte e i latticini costituivano la base dell’alimentazione. La carne era fornita da agnelli e capretti ed era abbondante. Per il resto, l’alimentazione era essenzialmente basata sul grano selvatico, con il quale le donne – come Sara nel racconto biblico – potevano fare il pane; erbe selvatiche venivano cotte come verdure e i datteri dell’oasi più vicina completavano il pasto.
Quando parte della popolazione divenne sedentaria e iniziò a praticare l’agricoltura, all’alimentazione si aggiunsero cereali coltivati e legumi, olive e uva. Con i cereali si potevano ora fare zuppe, minestre, polente, pane e si potevano condire i cibi con olio di oliva e bere il vino.
Lungo la riva del mare o nelle zone del Mar Morto si produceva sale e lo si scambiava con le pecore di qualche mercante di passaggio. Erbe aromatiche venivano coltivate nell’orto di casa, come noi oggi piantiamo basilico e timo in cassetta sul davanzale della finestra. La prima colazione si faceva in casa o nei campi ed era costituita da pane e formaggio, un poco di insalata o verdure, frutta fresca o secca e un poco di vino mescolato con acqua, o aceto o latte. L’aceto serviva per dissetare a lungo.

Il pasto principale veniva consumato nel tardo pomeriggio o presto alla sera, quando il caldo intenso della giornata era un poco diminuito e una fresca brezza solleticava la pelle e l’appetito. Cenando al crepuscolo o sotto il cielo stellato, i figli di Israele si distendevano su stuoie intorno a una pelle conciata che faceva da tovaglia stesa per terra, e si ristoravano con una robusta zuppa di frumento od orzo, ceci, fave o lenticchie, cotta ore e ore, insaporita da erbe selvatiche o verdure raccolte nella giornata.
All’epoca della bibbia i pasti erano un atto comunitario, come di nuovo lo sono nei Kibbutzim del moderno Israele. Ognuno immergeva il suo pezzo di pane o il suo “boccone” (Giovanni 13,26) nel piatto comune. Questo significava ovviamente che i cibi dovevano essere abbastanza solidi da non cadere dal pane nel tragitto dal piatto alla bocca.
Piccole coppe e piatti, anche se alcuni sono stati ritrovati in scavi della prima Età del Bronzo, entrarono nell’uso comune piuttosto tardi e da quel momento accompagnarono anche il nomade nei suoi viaggi. “Pulirò Gerusalemme come si asciuga un piatto, che si asciuga e si rovescia” leggiamo nel Libro dei Re (2 Re 21,13).
In quell’epoca antica l’alimentazione tipica dell’uomo – eccetto ovviamente il nomade – era in gran parte, anche se non esclusivamente, vegetariana.
Da una tavoletta di pietra, trovata a Gezer, del secolo X a.C. che porta inciso in caratteri cuneiformi una specie di calendario dei lavori agricoli mese per mese, possiamo farci un’idea degli alimenti base dell’epoca; questo calendario elenca: orzo, frumento, spelta, miglio, olive, uva, fichi, melagrane, sesamo e diverse verdure di stagione.
Allora come oggi i ricchi potevano permettersi raffinatezze meno comuni che la terra e i mercanti offrivano: buoi grassi, volatili, spezie di importazione, fior di farina, buon vino. 
E la varietà della loro alimentazione dava gusto alla vita.

Il cibo dell’epoca della Bibbia era cibo naturale: non esistevano coloranti, conservanti o aromi artificiali che potessero ingannare i sensi e rendere l’inesistente esistente. E questo rallegrerà i cultori dell’alimentazione naturale.
Purtroppo, per preparare un pasto biblico ai nostri giorni bisognerà fare alcune concessioni, sacrificando un certo grado di autenticità. Ad esempio è raro trovare in città, ma anche in campagna, latte di capra o di pecora, per di più non pastorizzato.

Parlando di colazioni, pranzi e cene presso le famiglie ebraiche italiane del passato, dovremo fare le debite distinzioni tra la cucina ricca, dispendiosa e un poco esibizionista di quelle più agiate e benestanti e quella essenziale, meno raffinata, quasi popolare e contadina, delle famiglie dai mezzi economici più limitati, indipendentemente dal fatto che quelle famiglie vivessero nei medesimi ghetti, sottoposte all’apparenza alle stesse misure restrittive, adottate dai vari governi nei confronti del nucleo ebraico nel suo complesso. 

La società ebraica era fatta di ricchi e di poveri, e la diversità nella condizione socioeconomica si vedeva anche a tavola.