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mercoledì 30 maggio 2012

FOOD PLACE - Kuoki, Torino

KUOKI, IL GIAPPONE SI FONDE CON LA TATIN

Vicino alla Mole di Torino, dove vi è un museo del cinema che il mondo ci invidia, c’è un locale gestito da un uomo eclettico ed introverso, Toni, che ha saputo cambiare più volte il suo destino.

Accanto alla madre, dalle cui abili mani escono sapienti manicaretti, cresce nella cultura del cibo sapido e costruito con risvolti di eclettismo artistico.

Abbandona la sua Torino, terra per lui di frontiera che limita i suoi orizzonti e lo porta alla corte di un re, della moda ma sempre un grande e rigoroso re: Giorgio Armani.

Crea per il suo privato pietanze e cromachie a lungo, deliziando ospiti 

e momenti domestici e la ribalta del mondo non lo affanna.



Irrequieto nel suo essere lo porta a ritornare nella Torino trasformata nuovamente in elegante capitale del gusto e raffinatezza, dopo un restailing olimpionico che la riporta alle cronache del pianeta mediatico.
Ed ecco che si spalancano porte nuove, inconsuete, con un locale strutturato in maniera inconsueta rispetto ai molti che risiedono accanto. 

Nuove ideazioni nel design e interni, con tavoli alti e sgabelli per sedersi, con un banco per il sushi confezionato da uno chef giapponese di tutto rispetto e manicaretti new concept che guardano alla fusion. 
Buono e diverso il sapore, fatto con cura ed attenzione che ti accompagna anche nella presentazione del piatto. Cromachie che appagano gli occhi e ti predispongono ad assaporare delizie. 
Non ti delude mai. 
Sino a quel dessert di latte e crema - latte in piedi -  che ti presenta in una “burnia” (arbarella in italiano) che tanto delizia sempre Nanni Moretti di passaggio nella sabaudia.

Lui è ironico, arguto, elegante e fiero, con una nota di melanconia nel suo sguardo scuro, di araba memoria.


Io tradurrei così il suo essere: “l'infelicità tace, e chi è in grado di cantare sulla propria infelicità, è già volato via, oltre la propria infelicità” secondo la citazione di F. Nietzsche, che venne travolto da un amore per questa Torino e la descrisse e decantò in molte sue rime.


Ci è piaciuto sedere nel suo dehor e consumare una tatin salata con asparagi e patate, contornata da ciuffi di senape passati in ottimo olio d'oliva, appena scottati che ti ritorna il sapore intero e colmo di terragnità.

Segue con il suo sguardo attento tutto e tutti e porta nel riceverti tutta l'eleganza e esperienza che tanto ha ammaliato il re.



NB. Ci dispiace apprendere la notizia che Kuoki non esiste più. Ci ha deliziato per tanti anni, adesso Toni si aprirà a nuove esperienze, chissà. In bocca al lupo, e che tu possa soddisfare altri palati, magari all'estero, come desideravi!







KUOKI - Via gaudenzio ferrari, 2 - 10124 - Torino (TO) 011 8397865

©PHOTO EDITING - elisa roattino

FOOD HISTORY - Il cibo del canavese nel Medioevo

UNA CONFERENZA A PAVONE


Qui di seguito un estratto della conferenza tenutasi da Norma Torrisi a Pavone Canavese il 26 maggio 2012 all'interno del convegno sul medioevo delle ferie medievali... buona lettura.

Il canavese nel Medioevo
Il canavese dell'anno mille è governato dal primo re d’Italia Arduino e questa relazione parte da questo alto medioevo sino il 1350, anno a cui si ascrive per l’Europa e la nostra penisola, la chiusura del medioevo. Cosa che non avviene per il Piemonte che lo vede immerso sino a dopo la metà del quattrocento,  non avendo rinascimento, vale a dire periodo di rinascita delle arti e costumi, periodo di magnificenza.  
La ragione si  può ascrivere a coloro che governavano questa terra di frontiera, le signorie e poi i loro discendenti vale a dire il casato  Savoia  inclini alle armi che allo spendere soldi per arti, consumi e chincaglieria.
Avviene quindi che non abbiamo evoluzione del cibo e delle arti, così ricca e appariscente come per le signorie toscane, emiliano-romagnole, umbre, marchigiane. Qui, in Piemonte,  si è da sempre badato al sodo, impegnando denaro per fortificare e   salvare il territorio dall’invasore, dall’inclemenza del clima.
Nella casata  Savoia sovente il re di turno al governo imponeva una doppia quaresima – o allungava quella esistente - per non  dover spendere ingenti capitali nel mantenere la vita di corte fatta di  feste, ricevimenti e inviti di cortesia verso altri regnanti. Era un cruccio che ha ripagato questa casata mantenendo intatta  la consistenza del suo patrimonio e il prestigio del blasone.
Terra di frontiera con passaggio di pellegrini, mercanti e popoli anche diversi dagli abitanti, favorendo scambi e rimanendo usi e costumi di questo defluire.
Quindi anche nel Canavese sono passati i popoli  del nord e quelli del sud dell’Europa, del continente asiatico ed africano.  
Le genti  del nord portarono un gusto maggiore per la  cacciagione e ci  insegnarono a perfezionare la salatura, l’essicazione, l’affumicatura delle carni,  incrementando la coltivazione dell’orzo per la produzione  e l’uso della birra.
Risvegliando altresì il gusto antico del miscuglio tra agro e dolce, che è  rimasto caratteristica di quasi tutti i popoli alpini. Le genti  del sud invece piuttosto portati per la pastorizia  hanno inciso sui metodi, le tecniche e i consumi dei latticini e formaggi.  La conservazione delle carni con uso di olio e di grasso. Basti pensare il lardo messo a stagionare sia sotto sale che sotto olio, del salame della duja messo sotto grasso. E per quanto riguarda i formaggi  nel canavese, ci è rimasto in retaggio un formaggio fresco di particolare bontà: i TOMINI, latte caglio  messi a sgocciolare in scodelle  di giungo, ed arrotolati nelle garze. Non compaiono in nessun’altra parte della nostra penisola. Li ritroviamo in Grecia,  ex Yugoslavia, nella Spagna, nelle popolazioni dedite alla pastorizia delle pianure dell’est sino ai mongoli delle pianure ventose dell’ex Unione Sovietica, verso l’Asia.
Soldati di ventura quali frncesi, tedeschi, catalani arrivati qui per difendere i signori locali hanno inciso molto sui nostri usi e consumi e rimangono le creme cotte quali la creme brulè, i salumi quali la salsiccia simile a quella francese e spagnola. Nonchè rape e verza cotti con le puntine di maiale e salsiccia che ci rimandano ai tedeschi.


La seconda metà del cinquecento vede  l’occupazione  dei francesi che danno impulso al risveglio delle arti, alla cultura e rinnovo e splendore anche nell’alimentazione. Le vicende militari successive vedono la restituzione del Piemonte al casato Savoia,  e l’avvento di regnanti dalla mentalità illuminata, cresciuti nelle corti europee e quindi più inclini al divertimento, alla cultura  ed al lusso. Si evolve il barocco con un fiorire di cantieri per la costruzione di palazzi, si crea benessere e un susseguirsi di statisti, politici, cortigiani, cuochi, nobildonne, guerrieri e popolani. Diveniamo, bisogna ricordarlo, la capitale del cioccolato e si formalizza l’uso degli agnolotti di provenienza emiliano-romagnola. Questa tesi è controversa,  perché dalle cronache si è dedotto  che lo strumento per  tagliarli nella antica lingua piemontese era denominato anolot, quindi agnolotti, e difficile ascrivere chi prima di chi è stato l’ideatore.
All’inizio di forma arrotondata riempiti solo di formaggio, uova e erbe. Nei ricettari del 1050 troviamo descritto un agnolotto di forma più grande formato da due grandi pezzi di pasta all’uovo  con dentro un  miscuglio di carne di volatile, erbe, formaggio, uova, chiusi a pressione delle dita conditi con toma fusa, burro di malga e foglie di salvia selvatica. Denominati GOB.
Rimangono come tradizione nel cuneese e in alcune luoghi del canavese.
Accanto a agnolotti di forma arrotondata e di circonferenza minore,  serviti in brodo allungati con  buon barbera.  Ancora oggi qualche anziano compie questo gesto e si evince  sia stato dettato dal pensiero parsimonioso delle nostre genti, che mangiando il brodo o la minestra alla fine del pasto quotidiano – consuetudine ancora in vigore –  la rimanenza del vino rimasto nel bicchiere sia finito nel brodo per dare  corpo e baldanza ad una vivanda magari non sempre di grande corposità.
I nostri antenati avevano imparato dagli invasori germanici e francesi, che un brodo caldo apre lo stomaco alla digestione, al contrario dell’abitudine malsana dei giorni nostri che ci fa propinare sorbetti  gelidi.
I francesi ci hanno lasciato l’abitudine di iniziare il pasto  con le insalate,  nei loro menù le entrée sono formate da verdure in insalata, le cruditè.
Attualmente assumiamo il caffè alla fine del pasto, rito che si impone dalla fine del seicento.
Prima del suo avvento si era  sempre ricorsi ad un  vino corposo – da meditazione – o a del  vino liquoroso quale il barolo chinato, abbinato nel settecento al cioccolato, o al marsala, o al passito.  Lo zucchero  aiuta l’apparato digerente a svolgere bene il suo dovere, alzando il tasso di zuccheri nel sangue abbassati dalla digestione.
Questi vini sono stati sostituiti con del liquore forte, abitudine errata, l’aggressività di un superalcoolico serve per dare forza e vigore nell’affrontare climi freddi, o dare energia.
I nostri vecchi ben lo sapevano,  assumendo un bicchierino di grappa  nelle mattine fredde, nebbiose, prima di recarsi nelle vigne o gli operai prima di intraprendere  la pedalata verso le officine.
Con l’anno mille, si afferma la certezza che il millennio nuovo che si affaccia, - l’uomo del 999 credeva nel detto mille e non più mille, - non porta catastrofi, quindi si rilassa ed inizia ad elaborare un vivere nuovo, più consono ed interessante. Non essendo incline a cibarsi di  radici e  vivere nella sporcizia, ma bensì alla convivialità e al buon pasto, si guarda attorno e cerca di allargare i suoi orizzonti. Ha dovuto affrontare qualche volta lunghi periodi bui, anche di carestia, dove si sono verificati anche atti di cannibalismo, ma sono stati momenti rari e sporadici e  sovente frutto di leggende. Oggi le chiameremmo leggende urbane. Nei momenti di carestia dunque, si pestavano le radici per fare pane,  si mangiava ghiande e panico macinate come farina per farne delle  polentine. Si lessavano e condivano  le radici della scorzonera, i barbabouch radichette primaverili che lessate e condite con toma e fontina fusi nel burro, ancora in uso nella tradizione delle nostre contrade.
Le bacche di rosa canina per fare liquori e marmellate. I peperoni e le rape in viticci di aceto, per intingerli nella bagna cauda.
E a proposito di leggende si narra che  nel 1377 al Piazzo di Biella la gente si sia addirittura mangiato il vescovo coi  cavoli. La leggenda  dice in realtà che le genti di Biella stanchi di angherie del feudatario Giovanni Fieschi, vescovo di Vercelli assalirono la sua residenza lo sorpreso a letto, lo catturarono e lo legarono a basto sul dorso del mulo. E dopo il giro di rito nella cittadina lo gettarono nel pozzo dove la gente del luogo pescava l’acqua  e con quell’acqua lessava i cavoli.  Da questo deriva il detto di aver mangiato il vescovo coi i cavoli. Il suddetto vescovo, non fu trucidato, visse e divenne papa  Urbano V.
Le superstizioni che  prendono corpo, molte sono  legate al cibo. Un esempio lo possiamo ritrovare nel modo  in cui si definiva ed ancora oggi avviene il fermento del pane in Canavese ed in  Piemonte:  l’alvà. Ci  proviene dall’antica credenza popolare che il pane manufatto con l’alzarsi del sole e l’apparire del giorno potesse levarsi  e crescere meglio e in fretta, la sua forza data in simbiosi anche al pane che è la nostra forza.
Nel 576, molto prima dell’anno mille questa zona era sotto la dominazione dei Longobardi che eressero importanti costruzioni. Ci  portarono  usanze alimentari importanti che capovolsero l’uso comune. Vi fu anche un rovescio della medaglia, abitudini  poco consone col buon gusto e il buon senso. Il micio di casa fu  immolato sul tavolo della superstizione: finì in  padella. Era credenza che cibarsi di carne di gatto servisse a propiziarsi il diavolo. Papa Gregorio Magno, volendo  porre fine a questa barbarie,  emanando editti ed infuocate prediche, tutte disattese, pensò di suggerire la seguente cosa: cibarsene ma come forma  di ribellione al culto del dio del male.  Sperando in cuor suo di sortire effetto inverso. Ma il micio, non solo continuarono a cibarsene ma suggerì dei trattati come meglio acconciarlo per una degustazione migliore.  Le cattive abitudini sono dure a morire e il nostro amico, a me molto caro, lo hanno continuato a mangiare sia sul nostro territorio piemontese, che ligure, lombardo e veneto.
Un’altra abitudine nei riguardi del felino era in uso in quegli anni, una  barbarie ancora più lugubre e tremenda. Si pensava che  per catturare la sua furbizia,  si potesse  trapanare il  cervello e con una cannuccia  succhiarlo. Furono emanati dalle autorità numerosi editti, cominate pene severissime. Era pratica molto comune e diffusa anche trasversalmente alle classi e alle  caste.
I popolani non vivevano il pasto quotidiano come un tormento, ma nella fiera povertà dei loro mezzi cercano di cucinare e ravvivare gli alimenti di cui dispongono. L’uso dei forni viene concesso più volte al mese e quindi una buona provvista  di pane, zuppe cotte nelle grandi pentole di coccio, legumi quali lenticchie e ceci vengono cotti con la carne di maiale e poi sistemati nel fresco delle cantine con coperchi di pane. Il maiale è la dispensa del signore e del popolano. Ci avviano al pascolo di questo animale i numerosi popoli barbari scesi per conquista. Ci insegnano anche la pastorizia di pecore e capre. I campi vengono coltivati assieme ad orti, ingentiliti dal gusto francese dei Franchi.  L’orto medievale ha un impronta rilevante nel nostro uso di allestimento, se ci guardiamo attorno ne troviamo traccia. In cosa consisteva? Nell’intervallare le cultivar   di verdure, legumi ad cultivar di fiori di varia foggia e colore. Si erigeva una barriera, tutto  attorno per delimitare il territorio,  per riparo dalle inclemenze del tempo. Si mettevano a dimora siepi di bosso, alberi da frutta intrecciati, canne che essiccate  servivano  per  pescare o intrecciare  cesti e utensili. Accanto alle verdure, erbe officinali per curare il corpo,  rose canine dalle cui bacche si confezionavano  infusi e marmellate. 
Questo orto particolare aveva la possibilità di  ritemprare con la cromachia dei colori lo spirito, di rilassare la mente. I popolani, sebbene con più modestia, cercavano di imitare quelli del loro signore. Il giardino era un luogo paradisiaco, protetto, dove ritemprare il corpo e lo spirito. Per realizzare questo mix botanico facevano appello alla loro immaginazione, fortemente influenzata dalla simbologia del tempo. Ecco allora l’orto strutturato secondo lo schema di un grande quadrato diviso in quattro a formare una croce di vialetti, con al centro una fonte o un albero o un roseto. I viali rappresentavano i quattro fiumi del paradiso, la fonte il paradiso stesso. Nei nostri orti tale organizzazione è venuta meno, ma si sono conservate l’organizzazione dello spazio in forme geometriche, semplici e rigorose, e quel gusto di mescolare le colture, operazione raffinata che richiede una conoscenza tutt’altro che improvvisata e molta attenzione nei particolari. Senza dubbio avevano un grande rispetto per la natura e i suoi cicli. Badavano all’alternanza delle coltivazioni, al riposo biologico della terra, alla pacciamatura con composte di foglie utili alla concimazione.
Un grande impulso lo danno i monaci. In questo territorio i benedettini  dell’abbazia Fruttuaria insegnano ai contadini modi migliori di coltivazione, profilassi contro malattie del verde, introducono alcune specie botaniche nuove per la zona.
Nell’allevamento del bestiame insegnano nuove tecniche e soprattutto introducono la profilassi contro le malattie. Vi troviamo metodi alcune volte empirici e sperimentali,  con l’evolversi delle conoscenze e della pratica  sortirono anche parecchi effetti positivi. Frutturaria aveva dei monasteri dipendenti ad essa quali la diocesi di Ivrea, Torino, Vercelli,  Novara, Acqui Alta, Tortona e altri in Liguria e Lombardia e con questi loro confratelli si scambiavano notizie ed informazioni di tecniche e nozioni di  cultura materiale. Ci lasciano quantità di ricette sull’uso delle verdure, senza dover attingere alla carne. Ci abituano a  mescolare le varie insalate, abbinate alle erbe officinali per curarsi e  nutrirsi con regola.
I monaci non mangiavano carne per la volontà di privazione già indicato nella regola benedettina che proibiva l’uso del consumo di carne di quadrupedi, consentendo quindi quella di volatili. La carne era considerata cibo lussurioso per un’equazione  carne=corpo=peccato.
Ai monaci va attribuito l’inserimento  stabile e la coltivazione del riso in tutta l’area pedamontana e del Piemonte, sino ad arrivare nelle pianure di Lombardore e Leinì. Coltivazione che in seguito venne abolita nella nostra zona dovuta alle acque troppo stagnanti, sino a divenire acquitrini, portatrici di malattie, quali la malaria. Vi è ragione di pensare che se avessero trovato il modo di far scorrere le acque come è avvenuto per la provincia vercellese e milanese ancor oggi i campi coltivati a mais sarebbero state risaie con ricaduta monetaria notevole. Le vie fluviali per le risaie sappiamo furono costruite grazie alle idee evolutive dei signori milanesi che diedero commissione per la progettazione nel cinquecento ad un  genio di nome Leonardo. Costruì  quella meraviglia  di ingegneria viaria fluviale che ancora  oggi è in uso.
Attorno a noi grandi pascoli, foreste e popolazione scarsa  favoriscono l’allevamento, la coltivazione e la pesca nei numerosi tratti di acqua e laghi, lasciataci dalle glaciazione e conseguente ritiro. Ricordiamo che questo catino delineato dalla Serra Morenica, era un ghiacciaio  ritirandosi ci ha lasciato  terra fertile, clima particolare, laghi e corsi d’acqua ricchi di vita.
Si disbosca man mano per coltivare e quindi cresce la  semina di grano, panico e segala per la zona montagnosa. Sulle mense dei contadini diminuisce l’uso della carne e cresce quella dei pani, pappe, polente di legumi e cereali.  Spesso integrati con farina di castagne per gli abitanti della montagna e nella necessità con ghiande.
Sulle mense dei signori vi è sempre il vino. Il villano allungava il suo vino con acqua per non dilapidare in fretta  ciò che aveva stipato nelle sue cantine. D’estate lo allungava con aceto per dissetarsi. Particolare cura nella coltivazione della vite sin dall’alto medioevo da parte dei signori sia laici che ecclesiastici. Conosciamo numerosi contratti con cui i proprietari terrieri affidavano a coloni una terra da coltivare a vigneto riservandosi una quota di vino prodotto e talvolta imponendo anche l’onere di provvedere al trasporto presso la residenza del signore.
Alcuni dei vitigni oggi presenti in Piemonte sono già attestati e documtantati  nel medioevo: nebbiolo, barbisino, bearne, grignolino, luglienga e moscatello.     Arneis, malvasia, freisa, pelaverga però verso la fine del medioevo.
Si ascrive all’anno mille la codificazione del commercio e lo scambio di merci in esubero, a seguito di un periodo di stabilità economica e politica. Vi è un fiorire di mercati, di sagre.  Dall’ammasso dovuto al signore, in periodo di abbondanza il contadino risparmia, quindi pensa di vendere il sovrappiù. Nasce un piccolo  commercio - sia al dettaglio che all’ingrosso – delle merci e degli armenti.
Ma è mosso anche dalla necessità di ritrovarsi  ben oltre il fatto commerciale,  scopre la gioia  di vedersi, di confrontarsi, di scambiarsi informazioni, fare incontri anche galanti, rivedere amici e parenti. Attorno alle piazze di questi mercati si aprono attività di ristoro, si favoriscono anche le arti con i saltimbanchi, carro di attori,  cantori e ciarlatani. I trovadori di lontana memoria.
Il banchetto e il convivio  assume una importanza strategica per la corte del signore del tempo. Allestendolo può favorire un incontro, stringere alleanze, patti commerciali e strategia di potere.
Le  tavole grezze, venivano ricoperte con tovaglie di lino, canapa coltivata nella zona, fiandra per i più facoltosi. I  sedili in panche e sopra alle stesse cuscini di velluto e broccato. I commerci intrapresi con l’Europa occidentale avevano favorito l’introduzioni di usi e costumi anche nell’abbigliamento e nelle stoffe. Nei dipinti sia murali che cartacei ritroviamo persone abbigliate con velluti, nastri, broccati, sete di provenienza dai mercati del nord Europa e dall’oriente. Il volgo si abbigliava con lane tessute a telaio, canapa e lino che coltivava nei suoi poderi, linee semplici, colori della terra, tinti con foglie della cipolla, erbe, radici e polveri.
In questo inizio secolo sulle mense venivano poste stoviglie di coccio individuali, manufatte in questa zona. Stiletti e cucchiai di legno per ogni commensale. Un grande piatto di legno su cui appoggiavano scodelle di coccio, ciotole e piatti, conforme le portate e le vivande da servire. Nei banchetti importanti sul piatto grande si appoggia un piatto fatto di pane, per favorire lo scolo dei grassi e a fine pasto lo si donava al popolo e ai servi della magione.   Il pane bianco era posto sulle tavole degli ecclesiastici e sulle mense delle ricche signorie.
Il bicchiere era un boccale di coccio individuale, ma per lungo tempo nei banchetti meno importanti vi fu l’uso di un boccale ogni due-tre commensali.
Prima dell’anno mille anche per il piatto o assetta di legno viene condiviso tra gruppi ristretti di commensali. Il cucchiaio sempre individuale e lo stiletto, manufatto pregiato e costoso, usato per tagliare le carni,  lo si divideva con altri commensali. Questo uso promiscuo impone una certa creanza e civiltà, si ha la necessità di dettare e codificare delle regole di buon comportamento: non sputacchiare nel bicchiere, non pasticciare nel piatto con le mani unte, servirsi con parsimonia, non sbattere la bocca nel masticare, non succhiare i brodi, non pulirsi le mani unte sui commensali a fianco, non sputare il cibo non gradito sotto le tavole. Non soffiarsi il naso nella tovaglia. Il tovagliolo viene istituito verso il 1300, ed in mancanza di questo prezioso pezzo di stoffa, vi era un servizio di  lavaggio mani fornito da ancelle. All’ acqua si aggiunge polvere di cannella e acqua di fiore di arancio per sgrassare le dita. Grandi pezze di stoffa profumata a loro volta servono per asciugare le mani e alle dame importanti venivano massaggiate le dita con unguenti, per mantenere la pelle morbida e profumata.
Le grandi feste allestite per festeggiare una vittoria in campo militare, un matrimonio, una nascita, un’alleanza avvenivano nelle stanze più grandi del maniero, nella bella stagione all’esterno dello stesso. Si installavano  tavole lunghe, le persone importanti venivano sistemate alle tavole allestite su  piattaforme di legno, addobbate con grande eleganza. Alle spalle delle  tavole degli ospiti venivano messe enormi balle di paglia, che servivano per  dare  riposo, ed in alcuni casi si trasformavano in giacigli amorosi. I  festeggiamenti duravano più giorni,  i commensali non si allontanavano mai dal luogo del convivio. Avveniva una maratona del divertimento allietato da giochi di saltimbanchi e mangiafuoco. Giullari e trovatori raccontavano le cronache di amori, di guerre, di alleanze, di sortilegi, di magie, di poesia e di arte.
I longobardi ci insegnano a bollire la carne e quindi si codifica l’uso del bollito misto con trionfo di salse.  Con i franchi invece questo uso si tramuta in arrosto. Lo si cucina con il vino,  in crosta,  allessato poi bruciato sul camino, in camicia, avvolto nella pelle della pancia della vitella, il salmì,  rovente cotto con spezie forti. Con aggiunta di aceto, miele, erbe e spezie più gentili, quali la cannella e la noce moscata.
Si codifica  il carpione, metodo di  conservazione a base di aceto o vino agro, che rimane una pietra miliare nella tecnica culinaria della regione e  trova sempre vaste applicazioni. Soprattutto  perché rende piacevole e commestibile alcuni pesci  che hanno un marcato gusto di fango, come la tinca o la carpa,  nascondendone i difetti. Ed essendo cibo  conservabile a lungo consente  di ridurre il tempo dedicato alla cucina, importante per le classi meno abbienti che impegnano maggior parte del tempo nel lavoro dei campi, delle botteghe.
Nel  903 in Piemonte avvenne l’invasione dei saraceni che misero la loro base nel cuneese.  Però qua e la anziché distruggere si stabilirono bande di fuoriusciti che crearono colonie. La più celebre fu nel canavese dove si insediarono a lungo trovandola terra di loro gradimento. Iniziarono così le coltivazioni del loro frumento, il grano saraceno, ne diffusero la coltivazione e il consumo di castagne e di riso. Da loro ci proviene l’acquavite.  Di questo tipo di grappa si hanno notizie di distillazioni anche prima del loro avvento addirittura all’epoca dei celti e dei galli, Il loro metodo di produzione era con la fermentazione della segala.  Un metodo empirico che trova riscontro fino a decenni fa presso i montanari valdostani  e canavesani. I saraceni ci hanno portato l’alambicco, che permette una produzione di distillato più regolare, più pulita, soprattutto sana.
Da loro e ancor oggi in uso vi sono parole che provengono etimologicamente : baita che anche in arabo vuol dire casa. Cusa per loro e per noi: la zucca. Nelle nostre campagne ancora ieri si chiamava sim il grasso di maiale con cui si preparavano le candele, la parola viene dall’arabo siman. I saraceni chiamavano el ramassin un frutto che anche noi chiamiamo nello stesso modo:  una piccola susina, oramai quasi estinta.
Abbiamo già raccontato di monaci benedettini, ma voglio dare un respiro più ampio al raccontar di digiuni, di offerte di cibo nella tradizione non soltanto cristiana.
Fin dal giungere in terra piemontese – con il martirio di san dalmazzo e con il massacro della legione tebea – il cristianesimo segna profondamente la vita e le abitudini del Piemonte. Massimo vescovo di Torino nei suoi primi sermoni proclama che ciò che Adamo perdette mangiando, cristo recuperò digiunando. Ma il segno maggiore la nuova religione lo lascia probabilmente verso la fine del medioevo, quando cominciano le persecuzioni, quando si creano le minoranze di popoli ma soprattutto di religioni, quando nasce l’inquisizione, quando più severo ma anche contradditorio è il regime di vita e alimentare che viene imposto.
Della tradizione non soltanto cristiana rimane il significato profondo dell’offerta del cibo dal povero al ricco, dal suddito al signore. Che significa ti sono inferiore. I donativi più tradizionali nel medioevo sono: polli, focacce, uova che per rispetto e devozione sono offerti al rappresentante della Chiesa e che per contratto i contadini sono tenuti a offrire al proprietario della terra sulla quale lavorano. Praticamente obbligatorio è anche albergare, mantenere l’ospite e il viandante, siamo terra di passaggio della via del pellegrino, offrirgli cibo e rinfreschi. OGGI NOI OFFRIAMO il caffè ma è pur sempre una offerta di cibo che ripete un atteggiamento che risale all’antichità più remota e che certamente il cristianesimo e il feudalesimo hanno rafforzato.
I piatti che comparivano sulla mensa dei numerosi conventi benedettini erano la pulmentaria polenta di cereali e che già nutriva i legionari romani. La zuppa di verdure e i fladones sorta di torte a base di pasta frolla, con tanto burro ricco condimento di queste zone di pascolo e dentro come delle scatole racchiuse impasti di carni, verdure, dolci. Si macerava la frutta e spesso per condire l’acqua la si acidulava con limoni e agro di aceto, per renderla più commestibile. I monaci insegnavano la pratica della penitenza di quaresima, dove la carne era bandita, anche quella dei volatili e aveva il sopravvento la verdura e le uova e i pesci di fiume e lago.
Per sfuggire a questo divieto, si inizia la pratica di allestimento di un piatto denominato TONNO DI CONIGLIO, dove del tonno non v’è traccia. Le carni del coniglio sono messe in carpione e ne deriva una consistenza e la tenerezza del tonno, riuscivano a beffarsi del divieto di mangiare carni nei giorni di quaresima o di vigilia.
Proprio per queste trasgressioni, intorno al  1100 la chiesa emana dei divieti, arriva a condannare anche il carnevale, cerca di stringere i freni, cercando di creare spazi per la devozione.
Sappiamo che il sovrano Arduino era dapprima contrario al potere ecclesiale, ne combinò di ogni sorta contro vescovi e potere, divenendo poi un cristiano fervente, istituì chiese, fece penitenze, cercò di preparare la sua anima per il trapasso. Troviamo istituito e più avanti codificato  nel 1391 un divieto di lavorare nei giorni di festa religiosa. NE TROVIAMO  PIU’ di 80  DIVIETI:  tutte le domeniche, i tre giorni di natale, la circoncisione, l’epifania, l’annunziata, l’assunta, la natività di Maria, la concezione, sant’Antonio, san Solutore,  tre giorni di pasqua, tre di pentecoste, l’ascensione, il corpus domini, santa croce, san Giacomo, san Cristoforo, ognissanti, le feste di apostoli. E come ben ricordiamo, in parte questo elenco di feste ci gratificò sino ad un poco di anni or sono.
Astinenza e digiuni sono imposti per circa la metà dei giorni dell’anno: nei giorni precedenti le grandi festività religiose: pentecoste, assunzione, ognissanti e natale. Nel periodo dell’avvento, la quaresima.  In questi periodi era obbligatoria la rinuncia parziale o totale del cibo. Inoltre era vietati cibi di origine animale: carne, latte, uova, burro e formaggio. Tutti i venerdì, i sabati di quaresima, il mercoledì delle ceneri, le quattro tempora. Tre gg a febbraio, tre a maggio, tre a settembre e tre a dicembre quasi in coincidenza con l’inizio delle stagioni. Ne deriva che si instaura abitualmente un desinare composto di verdure ripiene di mollica e latte, arricchito talvolta con uvetta sultanina se si commercia con l’oriente o con l’impero di Venezia. Riconosciamo le cipolle ripiene. Foglie di cavolo che racchiudono talvolta la cotenna di maiale e sempre mollica e latte e  l’uovo. Pane raffermo alternato con formaggio fresco e stagionato e foglie di verza.  Polenta fatta con semola, latte e quando rafferma impastata con uovo e cotta nel grasso.  Le uova, il latte e il formaggio furono introdotte, con furbizia,  nei giorni di divieto stretto, impastando con mollica di pane ammollato nel latte.
Piccola cronaca dell’anno mille: in questa terra venivamo travolti dalle lotte per le investiture tra Papato e Impero. E’ l’inizio della contesa tra Guelfi e Ghibellini. Attorno alla metà del millecinquanta l’abate Benedetto di san Michele della Chiusa prende posizione a favore del papa contro l’imperatore. Il marchese Pietro di Savoia e il vescovo di Torino Cuniberto organizzano una spedizione per cacciare l’abate, ma giunti in cima al monte si ubriacano, dimenticano il motivo del viaggio e tornano a Torino senza colpo ferire. Ma vi saranno operazioni molto più cruente verso altre religioni : vedi catari , occitani e valdesi, valser. Questi popoli furono messi  a ferro e fuoco e dovettero emigrare, scappare attestandosi  qua e là nelle valli. Anche nel canavese vi troviamo traccia, soprattutto nei ricettari  e nelle abitudini:  gnocchi  di punta di ortiche,  la polenta cuncia, le frittelle di uova, farina e toma, e nel seicento con l’avvento della patata l’aggiunta di questo tubero magico. La putia polentina di farina bianca di grano cotta in acqua e latte, riso e latte e riso e castagne.
Agli ebrei insediati sul territorio noi dobbiamo l’uso dell’oca e i suoi derivati. Oca e cavoli, oca ripiena di impasto di mollica di pane con farina di castagne e riso, arrosto di oca, salame di oca.
Nonché dei fiori di zucca  ripieni di formaggio e uova e fritti nell’olio. Le frittelle di varia forma e natura, le polpettine.
I nostri prati e orti ricchi di erbe officinali usate per confezionare il pasto e ingentilire il suo sapore. Ricordiamo l’ajocca che nei nostri alpeggi ancora cresce e serve per allestire quella meravigliosa zuppa. L’ajett dei babi. Aglietto dei rospi, l’aneto, la sedanina o erba bandoira, la bardana maggiore, l’assenzio gentile o artemisia, lo sparagio spinoso per le frittate detto anche uvertin. Si usavano anche le margheritine dei prati per fare le minestre, con borragine, ravizzone, vari tipi di campanule, il buon Enrico o spinacio selvatico, la cicoria selvatica che lessata e saltata con pancetta e spruzzata di aceto troviamo ancor prima del mille. La ruchetta selvatica, il girasole o dente di leone, la scarola, la lattuga selvatica, l’erba brusca che serviva anche per fare degli involtini. Ricetta lasciataci dai franchi, rimessa in vigore in alcuni menù d’oltralpe a cura di giovani e valenti chef . I sarzet che nelle vigne delle colline di Chiaverano, nella mia infanzia andavo a raccogliere, e crescevano spontanei e copiosi. Le foglie di vite,  per avvolgere pasticci sia di carne che di verdura.  Naturalmente il prezzemolo, il basilico, la mentuccia, salvia, il rosmarino, il timo, la rucola selvatica, i  capperi che ancora oggi vediamo sporgere i loro ciuffi dai muri antichi nelle nostre contrade.
Nelle cucine il medico era presente per miscelare le erbe e spezie e soprattutto lo zucchero per favorire la digestione, per curare malattie in particolar modo quelle dovute all’abuso del cibo. Lo speziale, questo era il suo nome, aveva grande potere, maneggiava un tesoro ed aveva nelle sue mani la cura della corte e del suo signore. 

venerdì 25 maggio 2012

FOOD THE COOKWARE DESIGN - Coppe in silicone di Compeixalaigua Designstudioflessibili

L'AMACA PER IL CIBO!
















Questa è veramente una novità. Wow!
Quando la ciotola è aperta si può utilizzare per la preparazione, poi la si può chiudere con i ganci in alto e può andare direttamente in forno.
Ma funzionerà? Qualcuno di voi l’ha già provata?

Ciotole in silicone per cottura a vapore
Coppa in silicone flessibile, progettata da Compeixalaigua Designstudio per Lékué

FOOD THE COOKWARE DESIGN - Ciotole colorate di Kitchen crafts

VI PIACCIONO LE CIOTOLE COLORATE?

Queste sono in melamina….
Sono lavabili in lavastoviglie ma non possono essere utilizzate nel forno a microonde!
Ciotole in melamina
Kitchen crafts – colour works

FOOD THE COOKWARE DESIGN - Asparagus steamer

COTTURA DEGLI ASPARAGI...MA COME SI FA?


Come cuocere gli asparagi? Semplice! Con l’asparago steamer le verdure con forma lunga ed alta cuociono mantenendo intatte le vitamine essenziali, così come il colore e il sapore, che spesso vengono meno quando si cuociono in acqua bollente. Questa pentola con cesto con sistema a vapore è in acciaio inox lucidato a specchio, ed dotato di un coperchio di vetro.
Facile, no?

Asparagus steamer
Kitchen crafts

RICETTE - Crema di asparago con ile flottante di prosciutto

UN ANTIPASTO INSOLITO


Ingredienti per 4 persone:
  • 15 asparagi di media grandezza
  • 30 gr di burro
  • Un cucchiaio di olio di oliva
  • 4 cucchiai di vino bianco per gli asparagi
  • Due cucchiai di parmigiano grattugiato
  • 100 gr di toma di alpeggio
  • 75 gr di panna da cucina
  • Una fetta spessa di prosciutto (circa 150 gr)
  • Timo e basilico q.b.
  • Un cucchiaio di vino bianco per il prosciutto
  • 1 tuorlo
  • 100 gr di caprino fresco
  • 8 Fette di pane abbrustolito con una grattugiata leggera di aglio giovane

Una volta lessati gli asparagi, tagliarli a tocchetti e saltarli in padella con burro di pascolo e poco olio; sfumarli con vino bianco corposo. Ridotto il vino, aggiungere brodo vegetale e addensare. Frullate il contenuto, lasciarlo raffreddare e aggiungere
panna, parmigiano grattugiato e toma filante di alpeggio. Mettere da parte il composto.

Nel contempo prendere del prosciutto cotto di buona qualità, tagliarlo a dadini, saltarlo nel burro e aggiungere timo e basilico, sfumando con vino passito o con un liquore tipo porto o brandy. 
Addensato il composto frullarlo con foglie di basilico, rosso d’uovo e formaggio caprino fresco.

Per l’impiattamento:
Mettere al centro del piatto la crema di asparagi e sopra il patè di prosciutto.
Per queste operazioni potete utilizzare come abbiamo fatto noi un coppa pasta per dare la forma che desiderate. 
Fate abbrustolire delle fette di pane, trattatele con una grattugiata leggera di aglio giovane  e servitele con questo antipasto delizioso.
Bon appetit!






















©PHOTO EDITING - elisa roattino

lunedì 14 maggio 2012

FOOD SYNTAX - Asparago

BIANCHI, VERDI, VIOLETTI, SELVATICI O COLTIVATI, SONO ORTAGGI PREGIATI E COSTOSI
Il suo nome scientifico è Asparagus Officinalis. Si utilizza prevalentemente la parte dei germogli o turioni che spuntano alla base dei rizomi legnosi, i gambi.
È originario della Mesopotamia diffuso in tutto il bacio Mediterraneo. Il suo nome ha derivazione greca “asparagos” che significa turgido, ma si ritiene che la sua origine sia bensì persiana.
Veniva coltivato dagli Egizi che lo offrivano in sacrificio agli dei considerandolo un simbolo della fertilità, ed era un ortaggio molto apprezzato nell'Antica Roma.
Ancora oggi in virtù della credenza legata all’effetto di portatore di fertilità, nei banchetti di nozze a Bassano viene offerto agli sposi.
Caduto l'Impero Romano, l'asparago sembra scomparire dall'Italia, essendo coltivato durante il Medioevo solo nei monasteri dove i monaci ne valorizzarono le mille virtù terapeutiche.
Lo ritroviamo citato tra il XIV ed il XV secolo, nei grandi libri trattati di cucina di quel periodo.
Secondo i francesi sembra però che l'asparago ritorni in auge solo sotto il regno di Luigi XVI (1643 – 1715), il re Sole, che lo prediligeva.
È un ortaggio tipicamente primaverile, con culmine in questo mese di maggio, sino alla fine di giugno.
Si coltiva in Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Sardegna.
Li si raccoglie teneri appena bucano il terreno, se restano a lungo in terra rischiano di divenire duri e legnosi.


disegno di Elisa Roattino

Turioni verdi quelli di Altedo; varietà Argenteuil e Napoletani dal colore violetto; quelli di Bassano, Albenga e Cesena dal colore bianco.

Oltre  a quelli coltivati vi sono nei prati e boschi quelli selvatici che vengono raccolti tra aprile e maggio dove si raccoglie solo la punta.
Il sapore degli asparagi è dolciastro e se non li recidiamo possono arrivare ad avere una altezza che supera il metro.
L'asparago ha un basso contenuto calorico per cui sono indicati per le diete dimagranti.
Hanno proprietà depurative e diuretiche ma sono ricchi di acido urico, per cui sono sconsigliati a persone affette da cistite, gotta e infiammazioni renali.
Sono ricchi di fibre, vitamine A e B, calcio, fosforo, potassio e sono quindi fondamentali per il corretto funzionamento del metabolismo.
Inoltre sono un toccasana per i soggetti debilitati e indeboliti avendo proprietà ricostituenti.

Alcune avvertenze per il buon maneggiamento e conservazione:
fare attenzione al gambo che non si deve piegare ma spezzare, i germogli devono essere dritti, sodi, stretti e privi di ammaccature, e il colore deve essere vivace e luminoso. Un asparago dalle punte aperte non è fresco. I turioni del mazzo devono avere tutti la stessa misura.
Li potete conservare in frigorifero nel cassetto della verdura, avvolti in un panno umido per 4 giorni; in alternativa si possono anche immergere i gambi degli asparagi nell'acqua fredda e conservarli per 24 ore, fuori dal frigorifero.
Essendo prettamente verdura di primavera, gli asparagi possono essere puliti, scottati per pochi minuti in acqua bollente salata e congelati per essere conservati e gustati tutto anno.