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mercoledì 30 maggio 2012

FOOD HISTORY - Il cibo del canavese nel Medioevo

UNA CONFERENZA A PAVONE


Qui di seguito un estratto della conferenza tenutasi da Norma Torrisi a Pavone Canavese il 26 maggio 2012 all'interno del convegno sul medioevo delle ferie medievali... buona lettura.

Il canavese nel Medioevo
Il canavese dell'anno mille è governato dal primo re d’Italia Arduino e questa relazione parte da questo alto medioevo sino il 1350, anno a cui si ascrive per l’Europa e la nostra penisola, la chiusura del medioevo. Cosa che non avviene per il Piemonte che lo vede immerso sino a dopo la metà del quattrocento,  non avendo rinascimento, vale a dire periodo di rinascita delle arti e costumi, periodo di magnificenza.  
La ragione si  può ascrivere a coloro che governavano questa terra di frontiera, le signorie e poi i loro discendenti vale a dire il casato  Savoia  inclini alle armi che allo spendere soldi per arti, consumi e chincaglieria.
Avviene quindi che non abbiamo evoluzione del cibo e delle arti, così ricca e appariscente come per le signorie toscane, emiliano-romagnole, umbre, marchigiane. Qui, in Piemonte,  si è da sempre badato al sodo, impegnando denaro per fortificare e   salvare il territorio dall’invasore, dall’inclemenza del clima.
Nella casata  Savoia sovente il re di turno al governo imponeva una doppia quaresima – o allungava quella esistente - per non  dover spendere ingenti capitali nel mantenere la vita di corte fatta di  feste, ricevimenti e inviti di cortesia verso altri regnanti. Era un cruccio che ha ripagato questa casata mantenendo intatta  la consistenza del suo patrimonio e il prestigio del blasone.
Terra di frontiera con passaggio di pellegrini, mercanti e popoli anche diversi dagli abitanti, favorendo scambi e rimanendo usi e costumi di questo defluire.
Quindi anche nel Canavese sono passati i popoli  del nord e quelli del sud dell’Europa, del continente asiatico ed africano.  
Le genti  del nord portarono un gusto maggiore per la  cacciagione e ci  insegnarono a perfezionare la salatura, l’essicazione, l’affumicatura delle carni,  incrementando la coltivazione dell’orzo per la produzione  e l’uso della birra.
Risvegliando altresì il gusto antico del miscuglio tra agro e dolce, che è  rimasto caratteristica di quasi tutti i popoli alpini. Le genti  del sud invece piuttosto portati per la pastorizia  hanno inciso sui metodi, le tecniche e i consumi dei latticini e formaggi.  La conservazione delle carni con uso di olio e di grasso. Basti pensare il lardo messo a stagionare sia sotto sale che sotto olio, del salame della duja messo sotto grasso. E per quanto riguarda i formaggi  nel canavese, ci è rimasto in retaggio un formaggio fresco di particolare bontà: i TOMINI, latte caglio  messi a sgocciolare in scodelle  di giungo, ed arrotolati nelle garze. Non compaiono in nessun’altra parte della nostra penisola. Li ritroviamo in Grecia,  ex Yugoslavia, nella Spagna, nelle popolazioni dedite alla pastorizia delle pianure dell’est sino ai mongoli delle pianure ventose dell’ex Unione Sovietica, verso l’Asia.
Soldati di ventura quali frncesi, tedeschi, catalani arrivati qui per difendere i signori locali hanno inciso molto sui nostri usi e consumi e rimangono le creme cotte quali la creme brulè, i salumi quali la salsiccia simile a quella francese e spagnola. Nonchè rape e verza cotti con le puntine di maiale e salsiccia che ci rimandano ai tedeschi.


La seconda metà del cinquecento vede  l’occupazione  dei francesi che danno impulso al risveglio delle arti, alla cultura e rinnovo e splendore anche nell’alimentazione. Le vicende militari successive vedono la restituzione del Piemonte al casato Savoia,  e l’avvento di regnanti dalla mentalità illuminata, cresciuti nelle corti europee e quindi più inclini al divertimento, alla cultura  ed al lusso. Si evolve il barocco con un fiorire di cantieri per la costruzione di palazzi, si crea benessere e un susseguirsi di statisti, politici, cortigiani, cuochi, nobildonne, guerrieri e popolani. Diveniamo, bisogna ricordarlo, la capitale del cioccolato e si formalizza l’uso degli agnolotti di provenienza emiliano-romagnola. Questa tesi è controversa,  perché dalle cronache si è dedotto  che lo strumento per  tagliarli nella antica lingua piemontese era denominato anolot, quindi agnolotti, e difficile ascrivere chi prima di chi è stato l’ideatore.
All’inizio di forma arrotondata riempiti solo di formaggio, uova e erbe. Nei ricettari del 1050 troviamo descritto un agnolotto di forma più grande formato da due grandi pezzi di pasta all’uovo  con dentro un  miscuglio di carne di volatile, erbe, formaggio, uova, chiusi a pressione delle dita conditi con toma fusa, burro di malga e foglie di salvia selvatica. Denominati GOB.
Rimangono come tradizione nel cuneese e in alcune luoghi del canavese.
Accanto a agnolotti di forma arrotondata e di circonferenza minore,  serviti in brodo allungati con  buon barbera.  Ancora oggi qualche anziano compie questo gesto e si evince  sia stato dettato dal pensiero parsimonioso delle nostre genti, che mangiando il brodo o la minestra alla fine del pasto quotidiano – consuetudine ancora in vigore –  la rimanenza del vino rimasto nel bicchiere sia finito nel brodo per dare  corpo e baldanza ad una vivanda magari non sempre di grande corposità.
I nostri antenati avevano imparato dagli invasori germanici e francesi, che un brodo caldo apre lo stomaco alla digestione, al contrario dell’abitudine malsana dei giorni nostri che ci fa propinare sorbetti  gelidi.
I francesi ci hanno lasciato l’abitudine di iniziare il pasto  con le insalate,  nei loro menù le entrée sono formate da verdure in insalata, le cruditè.
Attualmente assumiamo il caffè alla fine del pasto, rito che si impone dalla fine del seicento.
Prima del suo avvento si era  sempre ricorsi ad un  vino corposo – da meditazione – o a del  vino liquoroso quale il barolo chinato, abbinato nel settecento al cioccolato, o al marsala, o al passito.  Lo zucchero  aiuta l’apparato digerente a svolgere bene il suo dovere, alzando il tasso di zuccheri nel sangue abbassati dalla digestione.
Questi vini sono stati sostituiti con del liquore forte, abitudine errata, l’aggressività di un superalcoolico serve per dare forza e vigore nell’affrontare climi freddi, o dare energia.
I nostri vecchi ben lo sapevano,  assumendo un bicchierino di grappa  nelle mattine fredde, nebbiose, prima di recarsi nelle vigne o gli operai prima di intraprendere  la pedalata verso le officine.
Con l’anno mille, si afferma la certezza che il millennio nuovo che si affaccia, - l’uomo del 999 credeva nel detto mille e non più mille, - non porta catastrofi, quindi si rilassa ed inizia ad elaborare un vivere nuovo, più consono ed interessante. Non essendo incline a cibarsi di  radici e  vivere nella sporcizia, ma bensì alla convivialità e al buon pasto, si guarda attorno e cerca di allargare i suoi orizzonti. Ha dovuto affrontare qualche volta lunghi periodi bui, anche di carestia, dove si sono verificati anche atti di cannibalismo, ma sono stati momenti rari e sporadici e  sovente frutto di leggende. Oggi le chiameremmo leggende urbane. Nei momenti di carestia dunque, si pestavano le radici per fare pane,  si mangiava ghiande e panico macinate come farina per farne delle  polentine. Si lessavano e condivano  le radici della scorzonera, i barbabouch radichette primaverili che lessate e condite con toma e fontina fusi nel burro, ancora in uso nella tradizione delle nostre contrade.
Le bacche di rosa canina per fare liquori e marmellate. I peperoni e le rape in viticci di aceto, per intingerli nella bagna cauda.
E a proposito di leggende si narra che  nel 1377 al Piazzo di Biella la gente si sia addirittura mangiato il vescovo coi  cavoli. La leggenda  dice in realtà che le genti di Biella stanchi di angherie del feudatario Giovanni Fieschi, vescovo di Vercelli assalirono la sua residenza lo sorpreso a letto, lo catturarono e lo legarono a basto sul dorso del mulo. E dopo il giro di rito nella cittadina lo gettarono nel pozzo dove la gente del luogo pescava l’acqua  e con quell’acqua lessava i cavoli.  Da questo deriva il detto di aver mangiato il vescovo coi i cavoli. Il suddetto vescovo, non fu trucidato, visse e divenne papa  Urbano V.
Le superstizioni che  prendono corpo, molte sono  legate al cibo. Un esempio lo possiamo ritrovare nel modo  in cui si definiva ed ancora oggi avviene il fermento del pane in Canavese ed in  Piemonte:  l’alvà. Ci  proviene dall’antica credenza popolare che il pane manufatto con l’alzarsi del sole e l’apparire del giorno potesse levarsi  e crescere meglio e in fretta, la sua forza data in simbiosi anche al pane che è la nostra forza.
Nel 576, molto prima dell’anno mille questa zona era sotto la dominazione dei Longobardi che eressero importanti costruzioni. Ci  portarono  usanze alimentari importanti che capovolsero l’uso comune. Vi fu anche un rovescio della medaglia, abitudini  poco consone col buon gusto e il buon senso. Il micio di casa fu  immolato sul tavolo della superstizione: finì in  padella. Era credenza che cibarsi di carne di gatto servisse a propiziarsi il diavolo. Papa Gregorio Magno, volendo  porre fine a questa barbarie,  emanando editti ed infuocate prediche, tutte disattese, pensò di suggerire la seguente cosa: cibarsene ma come forma  di ribellione al culto del dio del male.  Sperando in cuor suo di sortire effetto inverso. Ma il micio, non solo continuarono a cibarsene ma suggerì dei trattati come meglio acconciarlo per una degustazione migliore.  Le cattive abitudini sono dure a morire e il nostro amico, a me molto caro, lo hanno continuato a mangiare sia sul nostro territorio piemontese, che ligure, lombardo e veneto.
Un’altra abitudine nei riguardi del felino era in uso in quegli anni, una  barbarie ancora più lugubre e tremenda. Si pensava che  per catturare la sua furbizia,  si potesse  trapanare il  cervello e con una cannuccia  succhiarlo. Furono emanati dalle autorità numerosi editti, cominate pene severissime. Era pratica molto comune e diffusa anche trasversalmente alle classi e alle  caste.
I popolani non vivevano il pasto quotidiano come un tormento, ma nella fiera povertà dei loro mezzi cercano di cucinare e ravvivare gli alimenti di cui dispongono. L’uso dei forni viene concesso più volte al mese e quindi una buona provvista  di pane, zuppe cotte nelle grandi pentole di coccio, legumi quali lenticchie e ceci vengono cotti con la carne di maiale e poi sistemati nel fresco delle cantine con coperchi di pane. Il maiale è la dispensa del signore e del popolano. Ci avviano al pascolo di questo animale i numerosi popoli barbari scesi per conquista. Ci insegnano anche la pastorizia di pecore e capre. I campi vengono coltivati assieme ad orti, ingentiliti dal gusto francese dei Franchi.  L’orto medievale ha un impronta rilevante nel nostro uso di allestimento, se ci guardiamo attorno ne troviamo traccia. In cosa consisteva? Nell’intervallare le cultivar   di verdure, legumi ad cultivar di fiori di varia foggia e colore. Si erigeva una barriera, tutto  attorno per delimitare il territorio,  per riparo dalle inclemenze del tempo. Si mettevano a dimora siepi di bosso, alberi da frutta intrecciati, canne che essiccate  servivano  per  pescare o intrecciare  cesti e utensili. Accanto alle verdure, erbe officinali per curare il corpo,  rose canine dalle cui bacche si confezionavano  infusi e marmellate. 
Questo orto particolare aveva la possibilità di  ritemprare con la cromachia dei colori lo spirito, di rilassare la mente. I popolani, sebbene con più modestia, cercavano di imitare quelli del loro signore. Il giardino era un luogo paradisiaco, protetto, dove ritemprare il corpo e lo spirito. Per realizzare questo mix botanico facevano appello alla loro immaginazione, fortemente influenzata dalla simbologia del tempo. Ecco allora l’orto strutturato secondo lo schema di un grande quadrato diviso in quattro a formare una croce di vialetti, con al centro una fonte o un albero o un roseto. I viali rappresentavano i quattro fiumi del paradiso, la fonte il paradiso stesso. Nei nostri orti tale organizzazione è venuta meno, ma si sono conservate l’organizzazione dello spazio in forme geometriche, semplici e rigorose, e quel gusto di mescolare le colture, operazione raffinata che richiede una conoscenza tutt’altro che improvvisata e molta attenzione nei particolari. Senza dubbio avevano un grande rispetto per la natura e i suoi cicli. Badavano all’alternanza delle coltivazioni, al riposo biologico della terra, alla pacciamatura con composte di foglie utili alla concimazione.
Un grande impulso lo danno i monaci. In questo territorio i benedettini  dell’abbazia Fruttuaria insegnano ai contadini modi migliori di coltivazione, profilassi contro malattie del verde, introducono alcune specie botaniche nuove per la zona.
Nell’allevamento del bestiame insegnano nuove tecniche e soprattutto introducono la profilassi contro le malattie. Vi troviamo metodi alcune volte empirici e sperimentali,  con l’evolversi delle conoscenze e della pratica  sortirono anche parecchi effetti positivi. Frutturaria aveva dei monasteri dipendenti ad essa quali la diocesi di Ivrea, Torino, Vercelli,  Novara, Acqui Alta, Tortona e altri in Liguria e Lombardia e con questi loro confratelli si scambiavano notizie ed informazioni di tecniche e nozioni di  cultura materiale. Ci lasciano quantità di ricette sull’uso delle verdure, senza dover attingere alla carne. Ci abituano a  mescolare le varie insalate, abbinate alle erbe officinali per curarsi e  nutrirsi con regola.
I monaci non mangiavano carne per la volontà di privazione già indicato nella regola benedettina che proibiva l’uso del consumo di carne di quadrupedi, consentendo quindi quella di volatili. La carne era considerata cibo lussurioso per un’equazione  carne=corpo=peccato.
Ai monaci va attribuito l’inserimento  stabile e la coltivazione del riso in tutta l’area pedamontana e del Piemonte, sino ad arrivare nelle pianure di Lombardore e Leinì. Coltivazione che in seguito venne abolita nella nostra zona dovuta alle acque troppo stagnanti, sino a divenire acquitrini, portatrici di malattie, quali la malaria. Vi è ragione di pensare che se avessero trovato il modo di far scorrere le acque come è avvenuto per la provincia vercellese e milanese ancor oggi i campi coltivati a mais sarebbero state risaie con ricaduta monetaria notevole. Le vie fluviali per le risaie sappiamo furono costruite grazie alle idee evolutive dei signori milanesi che diedero commissione per la progettazione nel cinquecento ad un  genio di nome Leonardo. Costruì  quella meraviglia  di ingegneria viaria fluviale che ancora  oggi è in uso.
Attorno a noi grandi pascoli, foreste e popolazione scarsa  favoriscono l’allevamento, la coltivazione e la pesca nei numerosi tratti di acqua e laghi, lasciataci dalle glaciazione e conseguente ritiro. Ricordiamo che questo catino delineato dalla Serra Morenica, era un ghiacciaio  ritirandosi ci ha lasciato  terra fertile, clima particolare, laghi e corsi d’acqua ricchi di vita.
Si disbosca man mano per coltivare e quindi cresce la  semina di grano, panico e segala per la zona montagnosa. Sulle mense dei contadini diminuisce l’uso della carne e cresce quella dei pani, pappe, polente di legumi e cereali.  Spesso integrati con farina di castagne per gli abitanti della montagna e nella necessità con ghiande.
Sulle mense dei signori vi è sempre il vino. Il villano allungava il suo vino con acqua per non dilapidare in fretta  ciò che aveva stipato nelle sue cantine. D’estate lo allungava con aceto per dissetarsi. Particolare cura nella coltivazione della vite sin dall’alto medioevo da parte dei signori sia laici che ecclesiastici. Conosciamo numerosi contratti con cui i proprietari terrieri affidavano a coloni una terra da coltivare a vigneto riservandosi una quota di vino prodotto e talvolta imponendo anche l’onere di provvedere al trasporto presso la residenza del signore.
Alcuni dei vitigni oggi presenti in Piemonte sono già attestati e documtantati  nel medioevo: nebbiolo, barbisino, bearne, grignolino, luglienga e moscatello.     Arneis, malvasia, freisa, pelaverga però verso la fine del medioevo.
Si ascrive all’anno mille la codificazione del commercio e lo scambio di merci in esubero, a seguito di un periodo di stabilità economica e politica. Vi è un fiorire di mercati, di sagre.  Dall’ammasso dovuto al signore, in periodo di abbondanza il contadino risparmia, quindi pensa di vendere il sovrappiù. Nasce un piccolo  commercio - sia al dettaglio che all’ingrosso – delle merci e degli armenti.
Ma è mosso anche dalla necessità di ritrovarsi  ben oltre il fatto commerciale,  scopre la gioia  di vedersi, di confrontarsi, di scambiarsi informazioni, fare incontri anche galanti, rivedere amici e parenti. Attorno alle piazze di questi mercati si aprono attività di ristoro, si favoriscono anche le arti con i saltimbanchi, carro di attori,  cantori e ciarlatani. I trovadori di lontana memoria.
Il banchetto e il convivio  assume una importanza strategica per la corte del signore del tempo. Allestendolo può favorire un incontro, stringere alleanze, patti commerciali e strategia di potere.
Le  tavole grezze, venivano ricoperte con tovaglie di lino, canapa coltivata nella zona, fiandra per i più facoltosi. I  sedili in panche e sopra alle stesse cuscini di velluto e broccato. I commerci intrapresi con l’Europa occidentale avevano favorito l’introduzioni di usi e costumi anche nell’abbigliamento e nelle stoffe. Nei dipinti sia murali che cartacei ritroviamo persone abbigliate con velluti, nastri, broccati, sete di provenienza dai mercati del nord Europa e dall’oriente. Il volgo si abbigliava con lane tessute a telaio, canapa e lino che coltivava nei suoi poderi, linee semplici, colori della terra, tinti con foglie della cipolla, erbe, radici e polveri.
In questo inizio secolo sulle mense venivano poste stoviglie di coccio individuali, manufatte in questa zona. Stiletti e cucchiai di legno per ogni commensale. Un grande piatto di legno su cui appoggiavano scodelle di coccio, ciotole e piatti, conforme le portate e le vivande da servire. Nei banchetti importanti sul piatto grande si appoggia un piatto fatto di pane, per favorire lo scolo dei grassi e a fine pasto lo si donava al popolo e ai servi della magione.   Il pane bianco era posto sulle tavole degli ecclesiastici e sulle mense delle ricche signorie.
Il bicchiere era un boccale di coccio individuale, ma per lungo tempo nei banchetti meno importanti vi fu l’uso di un boccale ogni due-tre commensali.
Prima dell’anno mille anche per il piatto o assetta di legno viene condiviso tra gruppi ristretti di commensali. Il cucchiaio sempre individuale e lo stiletto, manufatto pregiato e costoso, usato per tagliare le carni,  lo si divideva con altri commensali. Questo uso promiscuo impone una certa creanza e civiltà, si ha la necessità di dettare e codificare delle regole di buon comportamento: non sputacchiare nel bicchiere, non pasticciare nel piatto con le mani unte, servirsi con parsimonia, non sbattere la bocca nel masticare, non succhiare i brodi, non pulirsi le mani unte sui commensali a fianco, non sputare il cibo non gradito sotto le tavole. Non soffiarsi il naso nella tovaglia. Il tovagliolo viene istituito verso il 1300, ed in mancanza di questo prezioso pezzo di stoffa, vi era un servizio di  lavaggio mani fornito da ancelle. All’ acqua si aggiunge polvere di cannella e acqua di fiore di arancio per sgrassare le dita. Grandi pezze di stoffa profumata a loro volta servono per asciugare le mani e alle dame importanti venivano massaggiate le dita con unguenti, per mantenere la pelle morbida e profumata.
Le grandi feste allestite per festeggiare una vittoria in campo militare, un matrimonio, una nascita, un’alleanza avvenivano nelle stanze più grandi del maniero, nella bella stagione all’esterno dello stesso. Si installavano  tavole lunghe, le persone importanti venivano sistemate alle tavole allestite su  piattaforme di legno, addobbate con grande eleganza. Alle spalle delle  tavole degli ospiti venivano messe enormi balle di paglia, che servivano per  dare  riposo, ed in alcuni casi si trasformavano in giacigli amorosi. I  festeggiamenti duravano più giorni,  i commensali non si allontanavano mai dal luogo del convivio. Avveniva una maratona del divertimento allietato da giochi di saltimbanchi e mangiafuoco. Giullari e trovatori raccontavano le cronache di amori, di guerre, di alleanze, di sortilegi, di magie, di poesia e di arte.
I longobardi ci insegnano a bollire la carne e quindi si codifica l’uso del bollito misto con trionfo di salse.  Con i franchi invece questo uso si tramuta in arrosto. Lo si cucina con il vino,  in crosta,  allessato poi bruciato sul camino, in camicia, avvolto nella pelle della pancia della vitella, il salmì,  rovente cotto con spezie forti. Con aggiunta di aceto, miele, erbe e spezie più gentili, quali la cannella e la noce moscata.
Si codifica  il carpione, metodo di  conservazione a base di aceto o vino agro, che rimane una pietra miliare nella tecnica culinaria della regione e  trova sempre vaste applicazioni. Soprattutto  perché rende piacevole e commestibile alcuni pesci  che hanno un marcato gusto di fango, come la tinca o la carpa,  nascondendone i difetti. Ed essendo cibo  conservabile a lungo consente  di ridurre il tempo dedicato alla cucina, importante per le classi meno abbienti che impegnano maggior parte del tempo nel lavoro dei campi, delle botteghe.
Nel  903 in Piemonte avvenne l’invasione dei saraceni che misero la loro base nel cuneese.  Però qua e la anziché distruggere si stabilirono bande di fuoriusciti che crearono colonie. La più celebre fu nel canavese dove si insediarono a lungo trovandola terra di loro gradimento. Iniziarono così le coltivazioni del loro frumento, il grano saraceno, ne diffusero la coltivazione e il consumo di castagne e di riso. Da loro ci proviene l’acquavite.  Di questo tipo di grappa si hanno notizie di distillazioni anche prima del loro avvento addirittura all’epoca dei celti e dei galli, Il loro metodo di produzione era con la fermentazione della segala.  Un metodo empirico che trova riscontro fino a decenni fa presso i montanari valdostani  e canavesani. I saraceni ci hanno portato l’alambicco, che permette una produzione di distillato più regolare, più pulita, soprattutto sana.
Da loro e ancor oggi in uso vi sono parole che provengono etimologicamente : baita che anche in arabo vuol dire casa. Cusa per loro e per noi: la zucca. Nelle nostre campagne ancora ieri si chiamava sim il grasso di maiale con cui si preparavano le candele, la parola viene dall’arabo siman. I saraceni chiamavano el ramassin un frutto che anche noi chiamiamo nello stesso modo:  una piccola susina, oramai quasi estinta.
Abbiamo già raccontato di monaci benedettini, ma voglio dare un respiro più ampio al raccontar di digiuni, di offerte di cibo nella tradizione non soltanto cristiana.
Fin dal giungere in terra piemontese – con il martirio di san dalmazzo e con il massacro della legione tebea – il cristianesimo segna profondamente la vita e le abitudini del Piemonte. Massimo vescovo di Torino nei suoi primi sermoni proclama che ciò che Adamo perdette mangiando, cristo recuperò digiunando. Ma il segno maggiore la nuova religione lo lascia probabilmente verso la fine del medioevo, quando cominciano le persecuzioni, quando si creano le minoranze di popoli ma soprattutto di religioni, quando nasce l’inquisizione, quando più severo ma anche contradditorio è il regime di vita e alimentare che viene imposto.
Della tradizione non soltanto cristiana rimane il significato profondo dell’offerta del cibo dal povero al ricco, dal suddito al signore. Che significa ti sono inferiore. I donativi più tradizionali nel medioevo sono: polli, focacce, uova che per rispetto e devozione sono offerti al rappresentante della Chiesa e che per contratto i contadini sono tenuti a offrire al proprietario della terra sulla quale lavorano. Praticamente obbligatorio è anche albergare, mantenere l’ospite e il viandante, siamo terra di passaggio della via del pellegrino, offrirgli cibo e rinfreschi. OGGI NOI OFFRIAMO il caffè ma è pur sempre una offerta di cibo che ripete un atteggiamento che risale all’antichità più remota e che certamente il cristianesimo e il feudalesimo hanno rafforzato.
I piatti che comparivano sulla mensa dei numerosi conventi benedettini erano la pulmentaria polenta di cereali e che già nutriva i legionari romani. La zuppa di verdure e i fladones sorta di torte a base di pasta frolla, con tanto burro ricco condimento di queste zone di pascolo e dentro come delle scatole racchiuse impasti di carni, verdure, dolci. Si macerava la frutta e spesso per condire l’acqua la si acidulava con limoni e agro di aceto, per renderla più commestibile. I monaci insegnavano la pratica della penitenza di quaresima, dove la carne era bandita, anche quella dei volatili e aveva il sopravvento la verdura e le uova e i pesci di fiume e lago.
Per sfuggire a questo divieto, si inizia la pratica di allestimento di un piatto denominato TONNO DI CONIGLIO, dove del tonno non v’è traccia. Le carni del coniglio sono messe in carpione e ne deriva una consistenza e la tenerezza del tonno, riuscivano a beffarsi del divieto di mangiare carni nei giorni di quaresima o di vigilia.
Proprio per queste trasgressioni, intorno al  1100 la chiesa emana dei divieti, arriva a condannare anche il carnevale, cerca di stringere i freni, cercando di creare spazi per la devozione.
Sappiamo che il sovrano Arduino era dapprima contrario al potere ecclesiale, ne combinò di ogni sorta contro vescovi e potere, divenendo poi un cristiano fervente, istituì chiese, fece penitenze, cercò di preparare la sua anima per il trapasso. Troviamo istituito e più avanti codificato  nel 1391 un divieto di lavorare nei giorni di festa religiosa. NE TROVIAMO  PIU’ di 80  DIVIETI:  tutte le domeniche, i tre giorni di natale, la circoncisione, l’epifania, l’annunziata, l’assunta, la natività di Maria, la concezione, sant’Antonio, san Solutore,  tre giorni di pasqua, tre di pentecoste, l’ascensione, il corpus domini, santa croce, san Giacomo, san Cristoforo, ognissanti, le feste di apostoli. E come ben ricordiamo, in parte questo elenco di feste ci gratificò sino ad un poco di anni or sono.
Astinenza e digiuni sono imposti per circa la metà dei giorni dell’anno: nei giorni precedenti le grandi festività religiose: pentecoste, assunzione, ognissanti e natale. Nel periodo dell’avvento, la quaresima.  In questi periodi era obbligatoria la rinuncia parziale o totale del cibo. Inoltre era vietati cibi di origine animale: carne, latte, uova, burro e formaggio. Tutti i venerdì, i sabati di quaresima, il mercoledì delle ceneri, le quattro tempora. Tre gg a febbraio, tre a maggio, tre a settembre e tre a dicembre quasi in coincidenza con l’inizio delle stagioni. Ne deriva che si instaura abitualmente un desinare composto di verdure ripiene di mollica e latte, arricchito talvolta con uvetta sultanina se si commercia con l’oriente o con l’impero di Venezia. Riconosciamo le cipolle ripiene. Foglie di cavolo che racchiudono talvolta la cotenna di maiale e sempre mollica e latte e  l’uovo. Pane raffermo alternato con formaggio fresco e stagionato e foglie di verza.  Polenta fatta con semola, latte e quando rafferma impastata con uovo e cotta nel grasso.  Le uova, il latte e il formaggio furono introdotte, con furbizia,  nei giorni di divieto stretto, impastando con mollica di pane ammollato nel latte.
Piccola cronaca dell’anno mille: in questa terra venivamo travolti dalle lotte per le investiture tra Papato e Impero. E’ l’inizio della contesa tra Guelfi e Ghibellini. Attorno alla metà del millecinquanta l’abate Benedetto di san Michele della Chiusa prende posizione a favore del papa contro l’imperatore. Il marchese Pietro di Savoia e il vescovo di Torino Cuniberto organizzano una spedizione per cacciare l’abate, ma giunti in cima al monte si ubriacano, dimenticano il motivo del viaggio e tornano a Torino senza colpo ferire. Ma vi saranno operazioni molto più cruente verso altre religioni : vedi catari , occitani e valdesi, valser. Questi popoli furono messi  a ferro e fuoco e dovettero emigrare, scappare attestandosi  qua e là nelle valli. Anche nel canavese vi troviamo traccia, soprattutto nei ricettari  e nelle abitudini:  gnocchi  di punta di ortiche,  la polenta cuncia, le frittelle di uova, farina e toma, e nel seicento con l’avvento della patata l’aggiunta di questo tubero magico. La putia polentina di farina bianca di grano cotta in acqua e latte, riso e latte e riso e castagne.
Agli ebrei insediati sul territorio noi dobbiamo l’uso dell’oca e i suoi derivati. Oca e cavoli, oca ripiena di impasto di mollica di pane con farina di castagne e riso, arrosto di oca, salame di oca.
Nonché dei fiori di zucca  ripieni di formaggio e uova e fritti nell’olio. Le frittelle di varia forma e natura, le polpettine.
I nostri prati e orti ricchi di erbe officinali usate per confezionare il pasto e ingentilire il suo sapore. Ricordiamo l’ajocca che nei nostri alpeggi ancora cresce e serve per allestire quella meravigliosa zuppa. L’ajett dei babi. Aglietto dei rospi, l’aneto, la sedanina o erba bandoira, la bardana maggiore, l’assenzio gentile o artemisia, lo sparagio spinoso per le frittate detto anche uvertin. Si usavano anche le margheritine dei prati per fare le minestre, con borragine, ravizzone, vari tipi di campanule, il buon Enrico o spinacio selvatico, la cicoria selvatica che lessata e saltata con pancetta e spruzzata di aceto troviamo ancor prima del mille. La ruchetta selvatica, il girasole o dente di leone, la scarola, la lattuga selvatica, l’erba brusca che serviva anche per fare degli involtini. Ricetta lasciataci dai franchi, rimessa in vigore in alcuni menù d’oltralpe a cura di giovani e valenti chef . I sarzet che nelle vigne delle colline di Chiaverano, nella mia infanzia andavo a raccogliere, e crescevano spontanei e copiosi. Le foglie di vite,  per avvolgere pasticci sia di carne che di verdura.  Naturalmente il prezzemolo, il basilico, la mentuccia, salvia, il rosmarino, il timo, la rucola selvatica, i  capperi che ancora oggi vediamo sporgere i loro ciuffi dai muri antichi nelle nostre contrade.
Nelle cucine il medico era presente per miscelare le erbe e spezie e soprattutto lo zucchero per favorire la digestione, per curare malattie in particolar modo quelle dovute all’abuso del cibo. Lo speziale, questo era il suo nome, aveva grande potere, maneggiava un tesoro ed aveva nelle sue mani la cura della corte e del suo signore. 

30 commenti:

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    1. I do research for years on the history of material culture and then the food. This led me to "meddle" in the historical libraries of Europe, in private, in the ancient library collections and valuable in the basin of the Vatican Library. From this research came out with the history of our recipes and of course the food over the centuries, immense documentation that allowed me for a long time to set in castles, villas and squares of the catering banquets historians. As well as seminars, lectures, performances and interventions also writing a series of manuscripts which I hope to take the path of publication. I really have a precious material and full-bodied and this allows me to be able to claim that I know history and paths of everyday life of our Europe and this is Italian peninsula. To translate the sense of research I decided to learn to cook and have been a student of many chefs in Europe, so that we can put into practice what we have been left by the ancient manuscripts. It 'a passion that completes my daily life shared with my other passions and professions.

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  9. It's going to be end of mine day, but before end I am reading this impressive article to improve my experience.

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    1. is a pleasure to see so much interest for this article about food's history! stay tuned, we will do more articles like this very soon!

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    1. Thank you for your compliments. if you want to keep a blog and make it live the only advice I can give you is to write, write and write again! share it as much as possible online, even on a facebook page, and here the work of writing must be daily! good job!

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    1. I think ebook mights be a good idea. We are think about. If we will make it, we'll let you know. As far as writing for others, we are not able to do that too, if you want you can share our contents, quoting the source, of course.
      Sorry, I visit your site but does'nt seem to share the same contents, you talk about technology ... not food!

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  18. I don't comment, however after reading a few of the remarks on this page "FOOD HISTORY - Il cibo del canavese nel Medioevo". I do have a couple of questions for you if you don't mіnd.

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    1. As mentioned above and as you can see from the blog, we are on facebook and twitter, any new posts you find here. We can not post everything that we have already written, it would be an endless work!
      thanks for following us

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